domenica, 30 giugno 2024
Medinews
23 Maggio 2001

LA CARDIOLOGIA INTERVENTISTICA

§ Angioplastica coronaria (PTCA – Percutaneous Transluminal Coronary Angioplasty)
§ Valvuloplastica mitralica percutanea nella stenosi mitralica
§ Valvuloplastica percutanea nella stenosi polmonare congenita
§ Valvuloplastica per cutanea “di salvataggio” nella stenosi aortica serrata nel neonato
§ Chiusura del dotto di botallo o del Difetto Interatriale con protesi catetere-guidate
§ Angioplastica carotidea con impianto di stent
§ Angioplastica pericutanea di arterie periferiche: femorali, iliache o renali
§ Tecnica di Rushkind per il trattamento palliativo di cardiopatie congenite cianogene gravi; etc…
Tra tutte queste tecniche, quella che ha avuto l’impatto più rimarchevole nell’attività quotidiana nei servizi di emodinamica è stata l’angioplastica coronarica percutanea (PTCA). Questa tecnica ha oggi successo nel 95% dei casi, contro il 50-60% della trombolisi per via farmacologica. Ideata nel 1978 da Andreas Grunrzig, l’angioplastica ha sostituito l’intervento chirurgico di bypass aortocoronarico, ideato da Rene Favaloro nel 1968. Consiste nella dilatazione endoluminale delle zone coronariche ristrette dalle placche aterosclerotiche realizzata mediante un palloncino posto all’estremità di un catetere. Questa tecnica di cardiologia interventistica ha raggiunto una maturità largamente accettata per il trattamento di un numero sempre maggiore di pazienti affetti da cardiopatia ischemica dovuta a aterosclerosi coronarica, causata dalla presenza di placche atesclerotiche che determinano stenosi significative (>75%) della parte prossimale di grossi rami coronarici. Si tratta di una condizione molto frequente: secondi i dati dell’OMS infatti questa forma di cardiopatia causa il 33% delle morti cardiovascolari che, nel complesso, rappresentano circa il 50% dei decessi mondiali. La “popolarità” dell’angioplastica coronarica percutanea può essere attribuita ad un alto tasso di successo associato a una bassa morbilità acuta: entrambe queste condizioni derivano da una appropriata selezione dei pazienti, nonché da importanti innovazioni tecniche procedurali. Tra queste ultime, la più recente è l’applicazione degli stent, piccole protesi metalliche che rimanendo dilatate all’interno della parete arteriosa, contengono o impediscono una eventuale dissezione della parete del vaso. Inoltre riducono l’incidenza a distanza della presenza di restenosi, dal 30% al 10% circa.
Scopo della angioplastica coronarica è di ripristinare in una determinata regione del muscolo cardiaco un adeguato flusso sanguigno evitando la comparsa degli eventi clinici che caratterizzano l’ischemia miocardica (angina da sforzo e/o a riposo, infarto miocardico).
Tuttavia, nel 20-30% dei casi ed entro 6 mesi dalla procedura, la stenosi coronarica precedentemente dilatata tende a riformarsi (restenosi) costituendo nuovamente un ostacolo al flusso sanguigno ed impedendo così una normale irrorazione del corrispondente territorio miocardico. In questi casi la PTCA può essere ripetuta con le stesse probabilità di successo e senza aumento dei rischi. Inoltre, bisogna ricordare che è possibile trattare con successo le restenosi applicando all’interno della coronaria malata quel particolare supporto metallico chiamato STENT.
Le possibili complicanze sono legate sia all’esecuzione della coronarografia sia alla successiva angioplastica. L’insorgenza di importanti complicazioni durante o comunque per causa di una coronarografia è da considerarsi un evento rarissimo. La mortalità è inferiore allo 0.2%, con una incidenza di infarto acuto dello 0.3-0.4%. L’incidenza di complicazioni locali minori (ematoma nella sede di puntura dell’arteria femorale) è inferiore all’1%.
Naturalmente la probabilità di complicazioni dipende strettamente dalla gravità della malattia coronarica di base, dalla capacità del ventricolo sinistro (una delle camere da cui è composto il cuore) di contrarsi e di svolgere correttamente le sue funzioni e più in generale dall’età (l’età più avanzata può ovviamente avere maggiori complicazioni) e dallo stato di salute complessivo del paziente.
Una delle ultime importanti indicazioni è di eseguire l’angioplastica primaria (cioè senza trombolisi) nell’infarto miocardico acuto. E’ ormai ampiamente documentato, infatti, come in tali casi la PTCA abbia, rispetto alla trombolisi, molti vantaggi.
§ Laddove si è eseguita una trombolisi risultata inefficace, di estrema importanza è la possibilità di eseguire un’angioplastica che, in questo caso viene chiamata “rescue” e cioè di “salvataggio”, soprattutto se l’infarto è esteso e si può prevedere un rimodellamento che successivamente porterà a scompenso cardiaco.
§ Con l’angioplastica e l’applicazione dello stent si ottiene quasi sempre un buon flusso di sangue a valle della zona trattata, mentre nel 60% dei casi in cui la trombolisi è efficace, vi è molto spesso una stenosi residua, che può essere a volte significativa, del lume del vaso e un alto rischio di riocclusione. In tal caso è pertanto necessario tenere il paziente ricoverato almeno per 7 giorni, per eseguire un test ergometrico (o un altro tipo di stress/test) e, dove questo fosse positivo, eseguire una coronarografia, prevedendo ugualmente un angioplastica coronarica.
Quando possibile è pertanto più utile, anche economicamente, eseguire anche nell’infarto miocardico acuto l’angioplastica primaria, specie se si tratta di infarti estesi e gravi. E’ importante inoltre considerare che in tal caso si evitano anche le complicanze emorragiche che, sia pure in piccola percentuale di casi, si possono verificare con la trombolisi. La tecnica PTCA in Italia è molto diffusa. Dal ’95 al ’99 vi è stato un notevole incremento delle procedure che sono arrivate a circa 45.000, con l’uso di stent nel 78% dei casi. Inoltre anche l’impiego dell’angioplastica coronarica nell’infarto miocardico acuto, costituisce ormai oltre il 10% delle angioplastiche totali.
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