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13 Settembre 2001

GLIVEC: STORIA E SVILUPPO DI UNA TERAPIA ANTI CANCRO MIRATA

Fino a poco tempo fa, per la LMC (una neoplasia delle cellule ematiche) c’erano poche possibilità di cura. Le radiazioni, introdotte negli anni ’20, furono la prima terapia. A queste seguì, tra gli anni ’50 e ’60, la chemioterapia che si rivelò in grado di aumentare la sopravvivenza dei pazienti di circa cinque anni. Negli anni ’70 si giunse al trapianto di midollo osseo, mentre la terapia con α-interferone fu introdotta negli anni ’80. Di tutti questi trattamenti solo il trapianto di midollo osseo offre attualmente un effettivo potenziale di cura della LMC in termini di remissione a lungo termine nella crescita delle cellule leucemiche.

Dal momento che gli studi clinici con Glivec in pazienti con LMC sono risultati particolarmente promettenti, le metodologie del tutto innovative adottate per scoprire, sviluppare e produrre questo nuovo farmaco hanno attirato l’attenzione di ricercatori, produttori e pazienti in tutto il mondo.
La serie di scoperte scientifiche che, alla fine, hanno portato alla realizzazione di Glivec è iniziata però più di 40 anni fa.

Il problema genetico
Nel 1960, i ricercatori di Philadelphia Peter Nowell, MD, della School of Medicine dell’Università della Pennsylvania e David Hungerford, MD, dell’Institute for Cancer Research, identificarono una mutazione genetica in pazienti affetti da un tipo di tumore del sangue, la leucemia mieloide cronica (LMC)1 : dal cromosoma 22 mancava una porzione del DNA. L’alterazione, che divenne nota con il nome di cromosoma Philadelphia (Ph), poteva essere osservata in circa il 98% dei pazienti affetti da LMC. Per la prima volta, gli scienziati avevano scoperto una anomalia genetica legata ad uno specifico tipo di cancro e la scoperta del legame tra cromosoma Ph e LMC diede origine a una vera esplosione di ricerche sulle cause genetiche del cancro.

Ci vollero tredici anni prima che si effettuasse un nuovo, significativo passo avanti nella comprensione della LMC. Alcuni ricercatori dell’università di Chicago, guidati da Janet Rowley, si resero conto che la porzione di DNA mancante dal cromosoma 22 che caratterizzava la LMC era ‘migrata’ sul cromosoma 9, un fenomeno noto come “traslocazione”2. La scoperta di questo fenomeno aprì la strada ad altri ricercatori che, più tardi, furono stati in grado di associare dozzine di traslocazioni ad altri tipi di cancro.
(Nel 1998, Nowell e Rowley ricevettero l’Albert Lasker Medical Award, noto anche come il ‘Nobel americano’, per il lavoro svolto sulla LMC).

Nella seconda parte degli anni ’70 e nei primi anni ’80, i ricercatori fecero notevoli progressi nella ricerca genetica sul cancro. Ma alla fine degli anni ’80, due ricercatori del California Institute of Technology, David Baltimore (ora Presidente e professore di biologia presso lo stesso istituto) e Owen N.Witte (attualmente docente di immunologia alla University of California di Los Angeles), identificarono le cause principali della LMC.
Il cromosoma Ph produce un enzima che gioca un ruolo chiave nella crescita e proliferazione anomala delle cellule. Questo enzima, una tirosin-chinasi conosciuta con il nome di Bcr-Abl, modifica le normali istruzioni genetiche della cellula, inibendo il segnale che ordina di bloccare la produzione di globuli bianchi. Il risultato è che, mentre un millimetro cubo di sangue di un soggetto sano contiene da 4.000 a 10.000 globuli bianchi, il sangue di un paziente con LMC ne contiene una quantità da 10 a 25 volte superiore3. Proprio la crescita massiccia del numero di globuli bianchi è l’elemento che caratterizza la LMC.


Lo sviluppo razionale del farmaco
Con la scoperta che un singolo enzima può causare lo sviluppo della LMC, i ricercatori si trovarono davanti a una rara opportunità. A differenza dei precedenti tentativi, ora il target genetico era chiaro, e si poteva procedere a identificare razionalmente un farmaco che potesse prevenire l’attività dell’enzima Bcr-Abl.
Alex Matter, che nel 1983 aveva costituito in Novartis (allora Ciba-Geigy) una unità di ricerca sull’oncologia focalizzata primariamente sugli inibitori delle chinasi, si mise al lavoro con il suo gruppo di ricercatori. Nel 1985, quando Nicholas Lydon si unì al team, si diede avvio a un progetto sulla inibizione della tirosin-chinasi, in collaborazione con il chimico Peter Traxler.
Questo progetto portò, nei primi anni ’904,5, alla scoperta degli inibitori di Bcr- Abl.
Tra i diversi composti sintetizzati, Lydon e Matter ne identificarono uno che sembrava essere particolarmente promettente, che però aveva una attività contro Bcr-Abl debole e non specifica. Assegnarono così ad un altro team di scienziati Ciba–Juerg Zimmermann (Chimica medica), Elisabeth Buchdunger (biologia cellulare), Helmut Mett (screening e enzimologia) e Thomas Meyer (enzimologia) il compito di migliorare questo “composto base”. Modificandolo con l’aggiunta, l’eliminazione o la sostituzione di alcuni elementi strutturali, questi ricercatori iniziarono il difficile processo di miglioramento dell’azione del composto, rendendola più specifica ed efficace. Dopo due anni di accurati esperimenti, il team riuscì a raggiungere il suo obiettivo, trasformando un inibitore debole e aspecifico in un inibitore potente e mirato contro Bcr-Abl: il nuovo agente bloccava efficacemente l’enzima che causava la proliferazione di globuli bianchi osservata nei pazienti con LMC. Grazie al loro lavoro sperimentale, una intera classe di composti contro Bcr-Abl e altre chinasi6 era stata ottimizzata.

Nel 1993-1994, sulla base degli straordinari risultati sperimentali di Zimmermann, Buchdunger, Mett e Meyer, Novartis avviò una collaborazione con Brian Druker, ematologo e oncologo con una conoscenza specifica sulla tirosin-chinasi relativa alla LMC. Druker lavorò con l’azienda per definire l’attività di due composti in modelli cellulari di LMC. Uno studio basilare dimostrò che Glivec aveva attività selettive in vitro contro la proteina Bcr-Abl e inibiva, in vitro e in vivo, la proliferazione delle cellule che esprimevano Bcr-Abl. Altrettanto significativo era il fatto che Glivec non mostrava alcuna attività particolare nei confronti delle cellule sane7: cosa che lo distingueva rispetto ai tradizionali trattamenti anti- cancro. In seguito, altri ricercatori hanno confermato queste scoperte8,9.

Negli anni successivi, Ciba e in seguito Novartis hanno condotto ulteriori ricerche, necessarie per dare avvio agli studi clinici: elaborazione della sintesi chimica, studi sulla formulazione farmacologica, studi di farmacocinetica, screening tossicologici. I risultati iniziali della biodisponibilità orale e degli studi tossicologici erano promettenti, ma non ottimali, e furono pertanto intrapresi ulteriori cambiamenti. Nel 1996, i ricercatori di Ciba pubblicarono i risultati dei loro studi su questa classe di inibitori 10,13.

Poco dopo, un team multidisciplinare di scienziati Novartis iniziò lo sviluppo pre-clinico di Glivec. Poiché la sintesi del composto era un processo complesso, articolato in 12 fasi, si rese necessario il coinvolgimento di ricercatori specializzati in tutte le discipline interessate nello sviluppo. Un contributo determinante fu offerto dai ricercatori Novartis Peter Graf (farmacocinetica) e Ulrike Pfaar (sicurezza pre-clinica).
Nel 2001, Matter, Lydon, Druker, Baltimore e Witte sono stati premiati con il Warren Alpert Fundation Prize per gli studi su Bcr-Abl: un riconoscimento per l’ampiezza del lavoro svolto, dalla ricerca di base, a quella pre-clinica fino agli studi clinici.


Una sfida imprevista
Il programma si stava sviluppando rapidamente e il primo studio di Fase I con Glivec era iniziato nel giugno 1998. Ad aprile 1999, i primi risultati già indicavano che il farmaco dimostrava una significativa attività.
Il team responsabile dello sviluppo del farmaco iniziò allora a rendersi conto che la produzione di Glivec avrebbe potuto diventare un problema.
Infatti, come per tutti i composti in fase di sviluppo, la disponibilità negli stabilimenti pilota era sufficiente per soddisfare solo la piccola quantità necessaria per gli studi di Fase I. Solo dopo che un farmaco si è dimostrato efficace in un numero sufficientemente alto di pazienti (di solito nel corso degli studi di Fase II), si inizia la produzione su larga scala. Nel caso di Glivec, l’azienda si stava rendendo conto che avrebbe dovuto arrivare a questi livelli di produzione con tre o quattro anni di anticipo.
Quando queste informazioni vennero sottoposte all’attenzione dei vertici aziendali, Dan Vasella, Presidente e Amministratore Delegato di Novartis riconobbe le potenzialità dei risultati per i pazienti con LMC e autorizzò immediatamente l’impegno di risorse per accelerare i tempi di sviluppo e produzione. È da sottolineare che, per l’azienda, il rischio era notevole: si trattava di investire molti milioni di dollari per un farmaco ancora ai primi stadi di sviluppo, e che, se efficace, avrebbe potuto essere somministrato a soli 4.500 pazienti a cui ogni anno viene diagnosticata la malattia che però provoca, sempre ogni anno, circa 25.000 decessi. Poco dopo, Joerg Reinhardt, responsabile dello Sviluppo, chiese alla sua squadra di ridurre di un anno gli abituali tempi di sviluppo del farmaco. Chiese anche di accelerare l’approntamento del dossier registrativo per l’inizio del 2001: una sfida che, in più occasioni, sembrò impossibile.

L’obiettivo era quello di rendere disponibile Glivec a migliaia di pazienti anziché solo ad alcune dozzine, e in un tempo più breve del normale: per raggiungerlo, l’intera azienda avrebbe dovuto impegnarsi a rispettare una tabella di marcia estremamente accelerata.

Questa ‘missione impossibile’ fu affidata quasi interamente alla responsabilità di Greg Burke, responsabile a livello globale dello Sviluppo di Novartis Oncology, e di Andreas Rummelt, allora responsabile globale dello Sviluppo Tecnico e attualmente a capo delle Technical operations. Insieme a Reinhardt, misero in chiaro al team di sviluppo che l’obiettivo dell’azienda era solo quello di mettere Glivec a disposizione dei pazienti il più rapidamente possibile, senza preoccuparsi dei costi o dei rischi connessi all’eventuale sovraproduzione di un farmaco che, qualora non avesse soddisfatto le attese, non avrebbe potuto mai essere venduto.

L’azienda riorganizzò immediatamente la sua struttura produttiva, attribuendo a Glivec la seconda più alta priorità di sviluppo rispetto a circa due dozzine di prodotti importanti in fase avanzata di sviluppo. L’entità delle risorse investite era veramente straordinario considerando che si trattava di un farmaco in fase precoce di sviluppo, destinato a un numero esiguo di pazienti e che, a supporto dell’efficacia, erano disponibili risultati preliminari ottenuti da piccoli studi.

Aumentare la produzione
Per far fronte alla grande richiesta di studi clinici e a migliaia di pazienti in attesa, il team Glivec dovette decidere come produrre una quantità sufficiente di farmaco con una riallocazione di risorse in tutta l’azienda.
Uno dei problemi, trovare personale disposto a lavorare tutti i giorni per 24 ore, fu risolto immediatamente. Burke e Rummelt presero una decisione inusuale nello sviluppo e produzione del farmaco, spiegando chiaramente il potenziale del nuovo composto direttamente allo staff di produzione e sviluppo. Questo modo di procedere non è comune, ma Burke e Rummelt ritennero che fosse di importanza vitale, per le persone dello staff, conoscere l’impatto del farmaco, e quindi del loro impegno diretto sulle aspettative dei pazienti. I collaboratori compresero perfettamente quale significato avrebbe avuto questa impresa e cominciarono a considerarsi più come “salvatori di vite”, con la responsabilità reale e diretta di aiutare i pazienti, che come normali chimici industriali.
Lavorarono oltre l’orario di lavoro volontariamente, raggiungendo da allora molti ambiziosi traguardi di produzione. Di solito, la consegna dei lotti di un nuovo farmaco ai centri di ricerca che conducono studi clinici richiede due anni e mezzo; per Glivec, il prodotto fu consegnato in un solo anno.

La produzione su larga scala di prodotti farmaceutici tuttavia richiede molto più del pur indispensabile impegno delle persone. Poiché le proprietà fisiche tendono a modificarsi quando un farmaco viene prodotto in grandi quantità, i chimici industriali normalmente apportano variazioni al processo produttivo su molti lotti di prova, di medie dimensioni. In questa fase possono intervenire diversi problemi: alcuni composti, quando prodotti in grandi quantità, sviluppano troppo calore modificando le loro proprietà cliniche; altri possono sovraccaricare la capacità produttiva dei macchinari industriali; altri cambiano consistenza, ostruendo i micro-filtri e deteriorandosi.
Al fine di produrre una quantità sufficiente di Glivec per un programma di studi che stava per esplodere, Novartis dovette però saltare questa fase cruciale. Era la prima volta nella storia dell’azienda che un prodotto veniva trasferito direttamente dallo stabilimento pilota al sito produttivo. In un processo industriale standard, che da sempre prevede tre fasi, per la prima volta quella intermedia veniva omessa per ottenere molto farmaco in poco tempo.
Questo modo di procedere sarebbe stata una scelta coraggiosa con qualsiasi tipo di farmaco: per Glivec, il cui processo produttivo era particolarmente complesso, il rischio era poi enorme. Ma la decisione consentì di accorciare di un anno i tempi di sviluppo.

Nel contempo, dal momento che il processo produttivo era stato cambiato, diventò evidente che lo stabilimento di produzione Novartis Basilea non sarebbe stato adeguato per produrre la grande quantità di Glivec richiesta; l’azienda dovette spostare così lo stabilimento di produzione a Ringaskiddy, in Irlanda.
A seguito di questo, molti dipendenti di Basilea decisero volontariamente di stabilirsi in Irlanda con le loro famiglie. Con l’aiuto di interpreti, i ricercatori e tecnici svizzeri e il team di produzione irlandese, iniziarono a lavorare insieme, raggiungendo l’obiettivo.
A metà del processo di produzione su larga scala, Novartis dovette effettuare una parziale riorganizzazione del sistema ancora troppo nuovo. Costituì così un sito intermedio a Grimsby, in Gran Bretagna, per fornire temporaneamente ciò che alla fine si sarebbe sviluppato compiutamente in Irlanda.

Fu solo grazie a questo piano d’azione aggressivo ed efficace che Novartis riuscì ad aumentare la produzione di Glivec, così da soddisfare il fabbisogno. All’inizio del 2001, l’azienda era stata in grado di aumentare la produzione da kilogrammi a tonnellate in circa metà del tempo normalmente richiesto, completando in soli due anni lo sviluppo che normalmente ne richiede quattro o cinque. L’aumento della produzione di farmaco permise ai ricercatori in tutto il mondo di allargare la ricerca a pazienti da trattare nell’ambito di studi clinici, così da garantire l’accesso a Glivec al più alto numero possibile di malati.

Per mantenere la produzione in linea con una possibile domanda futura, Novartis sta continuando a valutare nuove opzioni per aumentare ulteriormente la capacità, attraverso linee di produzione parallele, ulteriore diminuzione dei tempi e l’ottimizzazione di tutti i processi.


Il programma di studi clinici
Lo studio di Fase I che diede inizio alla sfida per produrre Glivec in quantità sufficiente iniziò nel 1998 e fu condotto in tre centri americani da quattro ricercatori: Brian Druker e Charles Sawyers, (University of California di Los Angeles); Moshe Talpaz e Hagop Kantarjian (MD Anderson Cancer Center di Houston).
Il primo studio coordinato da Druker aveva l’obiettivo di definire il dosaggio ottimale e stabilire il profilo di sicurezza di Glivec in pazienti con LMC in fase cronica che non rispondevano più o non tolleravano l’interferone.

Mentre Reinhardt, Burke e Rummelt stavano lavorando intensamente per avere risorse interne in modo da produrre abbastanza farmaco per soddisfare la domanda, fu definita la successiva tappa dello sviluppo, gli studi di Fase II.
Per accelerare il programma di sviluppo e soddisfare le necessità dei pazienti con LMC, i protocolli vennero completati in metà del tempo normalmente richiesto, tanto velocemente da coincidere con la prima presentazione dei risultati degli studi clinici di Fase I.

Questi risultati conquistarono immediatamente l’interesse della comunità onco-ematologica. Dall’American Society of Hematology (ASH) del dicembre 1999, Druker presentò i risultati dello studio di Fase I di Glivec somministrato a dosi giornaliere uguali o maggiori a 300 mg: tutti i 31 pazienti avevano avuto una risposta ematologica completa (cioè riduzione significativa del numero di globuli bianchi), mentre un terzo aveva avuto una risposta citogenetica completa ( cioè riduzione o scomparsa del cromosoma Philadelphia)14,15.

Come previsto, la richiesta di Glivec da parte dei pazienti con LMC e delle loro famiglie aumentò vertiginosamente. Prima della presentazione all’ASH, ci sarebbero voluti oltre tre anni per trovare i 300-400 pazienti con LMC necessari per condurre uno studio rappresentativo. Dopo la presentazione dei dati, la notizia si diffuse in tutto il mondo e Novartis ricevette più di 2000 telefonate in due giorni, nelle quali si chiedevano informazioni sul farmaco. In breve, ci vollero solo quattro mesi – circa dieci volte meno del normale- per trattare 500 pazienti con LMC negli studi di Fase II16. A luglio del 1999, la FDA accettò di valutare con procedura prioritaria il dossier registrativo relativo all’impiego di Glivec per il trattamento di pazienti con LMC in fase blastica: di solito, le autorità concedono questa priorità solo a farmaci per patologie che non hanno terapie soddisfacenti o per migliorare quelle per condizioni molto gravi o di pericolo di vita.

Dal momento che l’interesse per Glivec aumentò, l’azienda allargò il numero di sperimentazioni per ottenere più informazioni cliniche e per rendere il farmaco accessibile a un numero sempre maggiore di pazienti. Uno degli studi era in collaborazione con il US Pediatric Oncology Group, gruppo cooperatore sostenuto dal National Cancer Institute (NCI), che rese disponibile l’accesso al farmaco nei bambini con LMC.


Aumentata la disponibilità per i pazienti
Le sperimentazioni cliniche sono effettuate per stabilire l’efficacia e la sicurezza di un farmaco e per supportare la richiesta di approvazione alle autorità regolatorie. Pertanto il numero di pazienti valutati deve essere sufficiente a rendere attendibile i risultati degli studi: raramente il numero è maggiore di quello richiesto.
Tuttavia, l’accesso dei pazienti al Glivec è stato al centro dell’interesse di Novartis – e continua ad esserlo- , fin da quando i primi studi indicarono la sua efficacia per il trattamento della LMC. Dopo averne discusso con i membri del National Cancer Institute (NCI), con l’FDA e con rappresentati dei pazienti affetti da LMC, da altre forme di cancro e da malattie rare, Novartis ha avviato un programma di ampliamento degli studi clinici.
L’unico obiettivo di questo programma era fornire Glivec ai pazienti che potessero trarne beneficio. Infatti le informazioni ottenute da questi studi non sarebbero state utilizzate per la documentazione registrativa. Si tratta di un altro enorme investimento dell’azienda, in uno stadio di sviluppo del farmaco non avanzato. Ancora una volta, il top management ne riconobbe la necessità clinica.

Il programma di accesso allargato al farmaco, avviato nell’aprile del 2000, ha consentito a più di 5.000 pazienti, in tutto il mondo, di poter essere trattati con Glivec: più o meno la metà dei pazienti che partecipavano alle sperimentazioni cliniche sul farmaco. Ad oggi, oltre 7.500 pazienti in 490 centri di 30 Paesi hanno già ricevuto Glivec e continueranno a riceverlo nell’ambito di questi studi, fino a quando sarà disponibile sul mercato.

Nel giugno 2000, grazie soprattutto agli straordinari sforzi di produzione, sono stati avviati gli studi di Fase III, con sei mesi di anticipo rispetto alla data stabilita. Le sperimentazioni di Fase III, vengono condotte in America e in Europa e comprendono 1.100 pazienti con LMC Ph positivi di nuova diagnosi trattati con Glivec o con α-interferone e chemioterapia. I ricercatori seguiranno questi pazienti sino alla progressione della malattia.

All’ASH del dicembre 2000 (solo un anno dopo la presentazione dei risultati di Fase I) furono resi noti i risultati degli studi di Fase II17,19, e ancora una volta generarono interesse ed entusiasmo. Tali studi condotti in aperto, senza farmaco di confronto, dimostrarono risultati estremamente brillanti sia sul piano della risposta citogenetica che ematologica.
Nei pazienti in fase cronica avviati a trattamento con Glivec, perchè resistenti o intolleranti all’α-IFN o perchè non potevano ricevere un trapianto, Glivec ha indotto una risposta ematologica nell’88% dei casi e una risposta citogenetica maggiore nel 49% dei casi. Nei pazienti in fasi più avanzate le risposte ematologiche sono state 63% in fase accelerata e 26% in fase blastica, e le risposte citogenetiche maggiori sono state 21% e 13 % rispettivamente.

Glivec è un farmaco ben tollerato. Eventi avversi gravi sono stati segnalati in meno del 3% dei casi e soprattutto nei malati in fase avanzata che sono più gravi rispetto ai pazienti in fase cronica. Sono stati segnalati numerosi effetti collaterali minori, tutti facilmente controllabili o tollerabili fra i quali ricorrono più frequentemente nausea, ritenzione idrica, crampi muscolari, diarrea, vomito, emorragia, dolori muscolo-scheletrici, rash cutaneo, cefalea, spossatezza, tutti facilmente controllabili. Poichè la sperimentazione clinica dura solo da tre anni, è assolutamente necessaria una farmacovigilanza puntuale e diligente per rilevare eventuali effetti tossici dovuti alla somministrazione prolungata. Per questo la terapia deve essere gestita dallo specialista. Al momento attuale è assolutamente controindicato l’impiego del farmaco in gravidanza.


La ricerca continua
Grazie all’azione specifica di Glivec per determinate chinasi, sono iniziati studi pilota per validarne l’uso anche in pazienti con tumore stromale dello stomaco e dell’intestno (GIST) gastrointestinale, un tumore solido raro. Si ritiene che in questo tipo di tumore l’attività di uno di questi recettori per la tirosin-chinasi, c-Kit, sia responsabile della crescita e della proliferazione del tumore. Altri tipi di tumori, diversamente dalla LMC e GIST, hanno una varietà di cause e meccanismi: è pertanto improbabile che un unico farmaco, con attività mirata, possa avere la stessa efficacia. Alcuni dati pre-clinici, tuttavia, lasciano sperare che Glivec, in associazione a chemioterapie standard, possa apportare benefici anche in altre forme di cancro.

Dal novembre 2000, Novartis ha collaborato con NCI e European Organization for the Research and Treatment of Cancer (EORTC) sull’uso di Glivec nei loro programmi di ricerca. L’azienda sta attualmente discutendo con questi enti le modalità per implementare le sperimentazioni cliniche in altri ambiti oncologici.

Sul mercato
Il 27 febbraio 2001, a meno di tre anni dall’inizio delle prime sperimentazioni cliniche, Novartis ha avviato la richiesta d’autorizzazione per il farmaco. Il 7 marzo, dopo solo otto giorni, l’FDA ha assicurato la procedura prioritaria nell’esame della richiesta. Inoltre, Glivec è stato designato farmaco ‘orfano’ in America, nell’Unione Europea e in Giappone. Il 10 maggio 2001, due anni e mezzo dalla richiesta di autorizzazione agli studi clinici la FDA ha approvato Glivec.

Un nuovo paradigma
Quella di Glivec è una storia esemplare, iniziata più di 40 anni fa con la scoperta del cromosoma Ph, la prima anomalia genetica associata al cancro, proseguita con la scoperta chiarificante del ruolo di Bcr-Abl nella LMC e con la possibilità, per Novartis, di individuare e sviluppare una terapia anticancro mirata. Ci si augura che Glivec possa rappresentare la prima di una serie di soluzioni terapeutiche specifiche per anomalie cromosomiali associate alle neoplasie e che possa rappresentare un modello per lo sviluppo e la produzione di farmaci per queste patologie.
Per molti ricercatori, Glivec conferma il concetto secondo cui comprendere le differenze tra le cellule cancerose e quelle normali può condurre alla ‘progettazione’ di terapie altamente specifiche, efficaci e non-tossiche.

Forse il contributo più significativo offerto dalla storia di Glivec è però la dimostrazione evidente che il progresso scientifico è possibile grazie al talento, la buona volontà, la generosità e il lavoro di gruppo di migliaia di persone. Senza alcun dubbio, sono stati la collaborazione di tutti i Paesi e l’impegno congiunto di un’industria privata, di governi e università che hanno fatto di Glivec un successo: per i pazienti, per i medici e per tutta la comunità impegnata a conoscere e combattere il cancro.

Note

1. Nowell PC, Hungerford DA. A minute chromosome in human chronic granulocytic leukemia. Science. 1960;132:164-172.

2. Rowley D. A new consistent chromosomal abnormality in chronic myelogenous leukemia identified by quinacrine fluorescence and Giemsa staining. Nature. 73;243:290-293.

3. Mughal T, Goldman J. Understanding leukemia and related cancers. Oxford: Blackwell Science Ltd. 1999.

4. Lydon NB, Adams B, Poschet JF, Gutzwiller A, Matter A. An E. coli expression system for the rapid purification and characterization of a v-abl tyrosine protein kinase. Oncogene Research. 1990;5:161-173

5. Geissler JF, Roesel JL, Meyer T, Trinks UP, Traxler P, Lydon NB. Benzopyranones and benzothiopyranones: a class of tyrosine protein kinase inhibitors with selectivity for the v-abl kinase. Cancer Research. 1992;52:4492-4498.

6. Druker BJ, Lydon NB. Lessons learned from the development of an Abl tyrosine kinase inhibitor for chronic myelogenous leukemia. J Clin Invest. 2000;105:3-7.

7. Druker BJ, Tamura S, Buchdunger E, Ohno S, Segal GM, Fanning S, Zimmermann J, Lydon NB. Effects of a selective inhibitor of the Abl tyrosine kinase on the growth of Bcr-Abl positive cells. Nature Med. 1996;2:561-566.

8. Deininger MW, Goldman JM, Lydon N, Melo JV. The tyrosine kinase inhibitor CGP57148B selectively inhibits the growth of BCR-ABL-positive cells. Blood. 1997;90:3691-3698.

9. Gambacorti-Passerini C, le Coutre P, Mologni L, Fanelli M, Bertazzoli C, Marchesi E, Di Nicola M, Biondi A, Corneo GM, Belotti D, Pogliani E, Lydon NB. Inhibition of the ABL kinase activity blocks the proliferation of BCR/ABL+ leukemic cells and induces apoptosis. Blood Cells Mol Dis. 1997;23:380-394.

10. Buchdunger E, Zimmermann J, Mett H, Meyer T, Muller M, Druker BJ, Lydon NB. Inhibition of the Abl protein-tyrosine kinase in vitro and in vivo by a 2-phenylaminopyrimidine derivative. Cancer Research. 1996;56:100-104.


11. Zimmermann J, Caravtti G, Mett H, Meyer T, Mueller M, Lydon NB, Fabbro D. Phenylamino-pyrimidine (PAP) derivatives: a new class of potent and highly selective PDGF-receptor autophosphorylation inhibitors. Bioorgan Med Chem Lett. 1996;6:1221-1226.

12. Zimmermann J, Buchdunger E, Mett H, Meyer T, Lydon NB. Potent and selective inhibitors of the ABL-kinase: phenylamino-pyrimidine (PAP) derivatives. Bioorgan Med Chem Lett. 1997;7:182-192.

13. Zimmermann J, Buchdunger E, Mett H, Meyer T, Lydon NB, Traxler P. Phenylamino-pyrimidine (PAP) derivatives: a new class of potent and selective inhibitors of protein kinase c (PKC). Arch Pharm. 1996;329:371-376.

14. Druker BJ. Presentation at the 41st Annual Meeting of the American Society of Hematology; 3-7 December 1999, New Orleans, LA.

15. Druker BJ, Talpaz M, Resta D, et al. Clinical efficacy and safety of an Abl specific tyrosine kinase inhibitor as targeted therapy for chronic myelogenous leukemia. Blood. 1999;94 (suppl 1):368a. Abstract 1639.

16. Enrollment data provided in a telephone conversation with Andreas Rummelt, 22 January 2001.

17. Kantarjian H, Sawyers C, Hochhaus A, Guilhot F, Schiffer C, Resta D, Capdeville R, Druker B. A phase II study of STI571, a tyrosine kinase inhibitor, in patients with resistant or refractory Philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia. Presentation at the 42nd Annual Meeting of the American Society of Hematology; 4 December 2000, San Francisco, CA.

18. Talpaz M, Silver RT, Druker B, Paquette R, Goldman JM, Reese SF, Capdeville R. A phase II study of STI571 in adult patients with Philadelphia chromosome positive chronic myeloid leukemia in accelerated phase. Presentation at the 42nd Annual Meeting of the American Society of Hematology; 4 December 2000, San Francisco, CA.

19. Sawyers C, Hochhaus A, Feldman E, Goldman JM, Miller C, Ben-Am M, Capdeville R, Druker B. A phase II study to determine the safety and anti-leukemic effects of STI571 in patients with Philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia in myeloid blast crisis. Presentation at the 42nd Annual Meeting of the American Society of Hematology; 4 December 2000, San Francisco, CA.



LE TAPPE DEL PROGRESSO: LA LMC E LE CURE


1845- Ricercatori scozzesi e tedeschi descrivono la malattia che più tardi verrà definita LMC

1960- I ricercatori di Philadelphia Peter Nowell e David Hungerfr scoprono una mutazione genetica (più tardi chiamata Cromosoma Philadelphia) presente nel 98% dei pazienti con LMC

1973- Janet Rowely trova che la porzione di DNA mancante del cromosoma 22 è “migrato” sul cromosoma 9 e viceversa

1984/1985- Owen Witte e David Baltimore guidano una ricerca che identifica Bcr-Abl , una tirosin-chinasi che causa una eccessiva proliferazione dei globuli bianchi

Inizio degli anni ‘90- Ricercatori di Novartis (allora Ciba-Geigy) identificano numerosi composti con una potenziale attività contro la proteina Bcr-Abl

1992 –Richiesta di brevetto per STI571

1996- Pubblicata la prima relazione su STI571

Maggio 1999– I primi risultati di sperimentazioni cliniche su STI571 vengono presentati all’American Society of Clinical Oncology

Novembre 1999– Druker presenta i risultati della fase I di STI571 all’American Society of Hematology: risposte citogenetiche complete in un terzo dei pazienti

Dicembre 2000– All’ASH vengono accettati cinquanta abstract su Glivec

Febbraio 2001– La richiesta di autorizzazione per il trattamento della LMC viene sottoposta all’FDA

Maggio 2001– L’FDA approva Glivec come terapia orale per il trattamento di pazienti con leucemia mieloide cronica (LMC) in crisi blastica, fase accelerata e fase cronica dopo fallimento della terapia con α-interferone.
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