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2 Giugno 2013

SPECIALE ASCO 2013 – N. 2, 02/06/2013

Chicago, 2 giugno 2013

TUMORI: “CURE ECCELLENTI GRAZIE AL SISTEMA ITALIA MA SONO TROPPO POCHI GLI INVESTIMENTI IN PREVENZIONE”

In un incontro con la stampa italiana i proff. Sergio Pecorelli, presidente di Aifa (agenzia del farmaco) e Healthy Fodundation e Stefano Cascinu presidente di Aiom si sono soffermati su tematiche di sostenibilità. “L’Italia investe meno risorse in salute rispetto ad altri Paesi, ma ottiene risultati migliori. Perché il nostro sistema, basato sul principio di universalità, è efficiente, grazie all’uso appropriato delle terapie, a servizi territoriali diffusi e alle eccellenze ospedaliere – ha spiegato Pecorelli – . Si colloca infatti al 12° posto fra i 27 Paesi europei per il più basso indice di mortalità per tutti i tipi di cancro. Ma i programmi di prevenzione oncologica sono ancora troppo pochi e hanno spesso un ruolo marginale, anche se si traducono nel lungo termine in milioni di vite salvate. Uno dei progetti più importanti è “Non fare autogol” promosso dall’AIOM”. “Ed ora stiamo per partire con una nuova campagna sugli screening mammografici – ha rivelato Stefano Cascinu -. Coinvolge le università per sensibilizzare le studentesse sulla loro importanza”. “I tagli legati alla spending review rischiano di compromettere gli equilibri su cui si basa l’efficienza del nostro modello assistenziale. È necessario quindi individuare nuove risorse – ha aggiunto Pecorelli – da investire in progetti di prevenzione e per favorire l’accesso ai trattamenti innovativi che presentano costi elevati”. E opportunità importanti possono essere offerte da una migliore appropriatezza, da una maggiore efficienza organizzativa delle strutture, dal ridurre esami inappropriati e dai biosimilari, farmaci simili ma non uguali agli originali biotecnologici. “La spesa sanitaria totale nel nostro Paese – ha affermato Pecorelli – è pari al 9,3% del Prodotto interno lordo, comunque, seppure di poco, superiore alla media europea, equivalente al 9%. Numeri molto distanti da quelli degli USA, dove il costo per la salute costituisce il 19% del Pil. In Italia i farmaci oncologici rappresentano il 25% della spesa ospedaliera per i medicinali, ma incidono solo sul 4% dell’intera nosocomiale. Nonostante l’aumento dell’età media della popolazione italiana, le uscite per i farmaci oncologici sono rimaste sostanzialmente stabili negli ultimi anni, passando da 1,390 miliardi di euro nel 2008, a 1,550 nel 2010, a 1,530 nel 2011. Non si può considerare solo il parametro ‘costo’ senza analizzare il risultato che ne deriva. Complessivamente nel nostro Paese migliorano le percentuali di guarigione dai tumori. Il 61% delle donne e il 52% degli uomini è vivo a cinque anni dalla diagnosi. Particolarmente elevata la sopravvivenza dopo un quinquennio in neoplasie frequenti come quelle del seno (87%) e della prostata (88%). Ma è necessario aumentare gli investimenti in prevenzione, soprattutto sugli stili di vita, ancora troppo scarsi. E non possiamo parlare di costi e sprechi dividendo l’ospedale dal territorio, serve una visione globale delle risorse disponibili”. I farmaci biotech hanno rivoluzionato l’oncologia e l’arrivo, nei prossimi anni, dei biosimilari di anticorpi monoclonali può aprire nuove prospettive, senza trascurare gli interrogativi sulla loro efficacia e sicurezza per i pazienti. “Questi prodotti – ha proseguito il presidente di Aifa – possono favorire risparmi e la sostenibilità dei sistemi sanitari. La razionalizzazione delle risorse disponibili passa anche attraverso l’appropriatezza nell’uso dei farmaci. I biosimilari degli anticorpi monoclonali sono più complessi di quelli oggi in commercio, per cui va garantita una stretta farmacovigilanza”. “Le maggiori criticità legate all’uso di questi prodotti – ha sottolineato Cascinu – derivano dal fatto che possono funzionare in maniera differente rispetto all’originatore. È necessario quindi che sia posta particolare attenzione ai processi di vigilanza e controllo. Servono studi post-marketing di sicurezza ed efficacia e appositi registri per i biosimilari di anticorpi monoclonali. Inoltre deve essere previsto un uso appropriato e attento dello strumento della notifica di eventuali reazioni avverse. Vanno evitati gli sprechi determinati da trattamenti di non comprovata efficacia e da esami diagnostici non appropriati – ha specificato Cascinu -. Come società scientifica siamo pronti a fare la nostra parte. Da un recente sondaggio condotto fra i nostri soci è emerso che per otto specialisti su 10 i tagli alla sanità pesano sulla capacità di curare al meglio i pazienti. E il 52% degli oncologi ritiene che i biosimilari possano favorire il contenimento dei costi, anche se per il 62% degli specialisti le maggiori criticità legate all’uso dei biosimilari derivano dal fatto che possono funzionare in maniera differente rispetto al farmaco originatore. Inoltre, per il 39% dei medici è più utile cercare i margini di risparmio in altre voci di spesa.

Due sono i punti chiave per il quale è importante il continuo dialogo tra società scientifiche e autorità regolatorie: l’estrapolazione delle indicazioni e la sostituibilità automatica dei biosimilari. Come già riportato nel position paper AIOM, in oncologia l’estensione d’uso dei biosimilari per altre indicazioni diverse da quelle specificate nel dossier registrativo potrebbe risultare inadeguata, specie per molecole quali gli anticorpi monoclonali e ogni nuova indicazione terapeutica dovrebbe essere sottoposta ad iter registrativo specifico. Per quanto riguarda il secondo punto, nel nostro Paese l’intercambiabilità fra due medicinali è ammessa solo se attuata tra prodotti compresi nelle cosiddette ‘liste di trasparenza’, predisposte dall’AIFA, relative ai generici e ai loro originatori, considerati a tutti gli effetti equivalenti terapeutici. “Per quanto riguarda i biosimilari attualmente disponibili – ha concluso il presidente degli oncologi italiani -, nessuna norma sancisce il divieto esplicito di sostituzione, previsto invece in altri Paesi europei. Però l’AIFA non ha incluso alcun biosimilare nelle ‘liste di trasparenza’, bloccando, di fatto, la possibilità di sostituzione da parte del farmacista. Quindi questi prodotti non possono ritenersi automaticamente intercambiabili con gli originatori e la possibilità di utilizzarli al posto dei medicinali di riferimento è da ricondurre alla scelta terapeutica del medico. La posizione della nostra società scientifica è chiara: i nuovi pazienti possono essere trattati con un biosimilare, mentre per quelli già in cura con l’originatore andrebbe garantita la continuità terapeutica”. Posizione peraltro condivisa anche dal prof. Sergio Pecorelli.

EFFETTI A LUNGO TERMINE DI TAMOXIFEN ADIUVANTE CONTINUATIVO PER 10 ANNI VS 5 ANNI IN DONNE CON TUMORE MAMMARIO INIZIALE: STUDIO ATTOM

Lo studio del gruppo collaborativo aTTom (adjuvant Tamoxifen Treatment offer more?) conferma che nel tumore positivo ai recettori degli estrogeni (ER+) la continuazione del trattamento con tamoxifene per 10 anni, invece di sospendere dopo 5, favorisce ulteriori riduzioni di recidiva, dal settimo anno in poi, e mortalità per il tumore della mammella, dopo 10 anni. Nel tumore mammario iniziale ER+, tamoxifene per 5 anni ha mostrato ridurre i tassi di morte per cancro della mammella di circa un terzo nei 14 anni successivi all’inizio del trattamento. Non è ancora certo come 10 anni di terapia con tamoxifene si rapportino a questi risultati. Nello studio presentato al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), tra il 1991 e il 2005, 6953 donne con tumore mammario invasivo ER+ (n = 2755) o non esaminate per ER (n = 4198, con una stima dell’80% di ER+ se lo stato fosse noto), seguite in 176 centri britannici, sono state randomizzate dopo i primi 5 anni di trattamento con tamoxifene a sospendere o continuare la terapia fino al decimo anno. Il follow-up annuale ha valutato aderenza alla terapia, recidiva, mortalità e ammissioni ospedaliere. L’allocazione alla somministrazione continuativa di farmaco per 10 anni ha portato a una riduzione della recidiva del tumore mammario (580 pazienti delle 3468 vs 672 pazienti delle 3485; p = 0.003); questa riduzione era tempo-dipendente, con una RR (rate ratio) di 0.99 durante gli anni 5 – 6 (IC 95%: 0.86 – 1.15), di 0.84 negli anni 7 – 9 (IC 95%: 0.73 – 0.95) e di 0.75 nei successivi (IC 95%: 0.66 – 0.86). Il trattamento più lungo ha ridotto anche la mortalità per tumore mammario (392 decessi vs 443, dopo la recidiva; p = 0.05), con una RR di 1.03 (IC 95%: 0.84 – 1.27) negli anni 5 – 9 e di 0.77 (IC 95%: 0.64 – 0.92) successivamente, e la mortalità globale (849 decessi vs 910; p = 0.1), con una RR di 1.05 (IC 95%: 0.90 – 1.22) negli anni 5 – 9 e di 0.86 (IC 95%: 0.75 – 0.97) successivamente. La mortalità non per tumore mammario è risultata poco alterata (457 decessi vs 467; RR = 0.94; IC 95%: 0.82 – 1.07). Durante lo studio, sono stati diagnosticati 102 vs 45 tumori endometriali (RR = 2.20, IC 95%: 1.31 – 2.34; p < 0.0001), con 37 (1.1%) vs 20 (0.6%) decessi (rischio assoluto 0.5%; p = 0.02). Combinando simili risultati di aTTom con la controparte internazionale ATLAS (Lancet, 2013) ha portato a un aumento della significatività statistica dei benefici su recidiva (p < 0.0001), mortalità per tumore mammario (p = 0.002) e sopravvivenza globale (p = 0.005). In conclusione, lo studio del Gruppo Collaborativo aTTom conferma che, nel tumore ER+, la continuazione del trattamento con tamoxifene fino a 10 anni, rispetto alla sospensione dopo i primi 5, produce ulteriori riduzioni della recidiva, dal settimo anno in poi, e della mortalità per tumore mammario, dopo il decimo anno. Considerati assieme alla riduzione delle morti per tumore mammario osservata negli studi con tamoxifene somministrato per 5 anni vs nessuna terapia, questi risultati indicano che il trattamento adiuvante con tamoxifene per 10 anni, rispetto a nessuna terapia, riduce la mortalità per tumore mammario di circa un terzo nei primi 10 anni dalla diagnosi e della metà negli anni successivi.

STORIA NATURALE DELLA NEOPLASIA MALIGNA OSSEA NEL TUMORE GASTRICO: RISULTATI FINALI DI UNO STUDIO MULTICENTRICO

Secondo i ricercatori italiani, l’analisi retrospettiva, presentata al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), costituisce il più ampio studio multicentrico volto a dimostrare che le metastasi ossee del tumore gastrico non sono così rare, sono invece aggressive e portano all’insorgenza precoce di eventi scheletrici nella maggior parte dei pazienti. Le metastasi ossee rappresentano un crescente problema clinico nel tumore avanzato dello stomaco, man mano che la sopravvivenza legata alla malattia migliora. In letteratura esistono pochi dati sulla storia naturale della malattia ossea in questa neoplasia maligna. Lo studio multicentrico, osservazionale, retrospettivo, volto a definire la storia naturale dei pazienti con tumore gastrico e metastasi ossee, è stato condotto in 22 centri ospedalieri italiani dove i pazienti hanno ricevuto la diagnosi e il trattamento tra il 1998 e il 2011. I dati sulla patologia clinica, ‘outcome’ scheletrici, eventi scheletrici e terapie dirette all’apparato scheletrico di 208 pazienti, deceduti, con tumore gastrico ed evidenza di metastasi ossee sono stati analizzati statisticamente. I risultati indicano un tempo mediano alle metastasi ossee di 8 mesi (IC 95%: 6.125 – 9.875), considerando tutti i pazienti inclusi nell’analisi. Il numero mediano di eventi scheletrici per paziente era 1: meno della metà dei pazienti (31%) ha manifestato almeno un evento e solo il 4 e 2% ne ha manifestati rispettivamente almeno due e tre. I tempi mediani al primo e secondo evento scheletrico erano rispettivamente 2 e 4 mesi. La sopravvivenza mediana è risultata di 6 mesi dopo la diagnosi di metastasi ossee e di 3 mesi dopo il primo evento scheletrico, mentre la sopravvivenza mediana nei pazienti che non hanno manifestato eventi scheletrici è stata di 5 mesi. Nei pazienti che hanno ricevuto acido zoledronico prima del primo evento scheletrico, il tempo mediano alla sua comparsa è stato significativamente prolungato rispetto al controllo (7 vs 4 mesi nel controllo; p = 0.0005). In conclusione, secondo gli autori dello studio questa analisi retrospettiva rappresenta, al meglio delle loro conoscenze, il più ampio studio multicentrico condotto per dimostrare che le metastasi ossee del tumore gastrico non sono così rare, sono frequentemente aggressive e portano precocemente a insorgenza di eventi scheletrici nella maggioranza dei pazienti. Inoltre, questo ampio studio che ha incluso 90 pazienti in trattamento con acido zoledronico ha mostrato, per la prima volta in letteratura, una significativa estensione del tempo al primo evento scheletrico e un prolungamento del tempo mediano di sopravvivenza dopo la diagnosi di metastasi ossee.

CORRELAZIONE TRA POLIMORFISMI VEGF E VEGF-R, TOSSICITÀ E ‘OUTCOME’ CLINICO IN PAZIENTI CON CARCINOMA EPATICO TRATTATI CON SORAFENIB

Un’analisi dei polimorfismi T in rs833061, C in rs699947 e C in rs2010963, presentata al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract) conferma che questi pazienti mostrano un più alto tasso di tossicità, che a sua volta correla con una migliore sopravvivenza libera da progressione (PFS) e globale (OS). L’introduzione di sorafenib per il trattamento del carcinoma epatico avanzato ha radicalmente cambiato l’outcome’ clinico di questi pazienti. Tuttavia, non è ancora possibile predire la risposta al trattamento, così come le tossicità, nel singolo paziente. I ricercatori dell’A. O. Ospedali Riuniti-Università Politecnica delle Marche di Ancona hanno precedentemente riportato che i polimorfismi di VEGF e VRGFR possono avere un ruolo predittivo e prognostico in quest’ambito, ma poco è noto sulla possibile correlazione con la tossicità. Scopo dello studio era dunque valutare se i genotipi di VEGF e VEGFR fossero correlati alla tossicità in pazienti con carcinoma epatico che ricevono sorafenib. A questo scopo, sono stati esaminati i polimorfismi di singolo nucleotide (SNP) di VEGF-A, VEGF-C e VEGFR-1, VEGFR-2 e VEGFR-3 in 73 campioni istologici di pazienti con carcinoma epatico e sono stati analizzati tempo alla progressione (TTP), OS e le tossicità. I polimorfismi di VEGF-A rs833061 T>C, rs699947 C>A e rs2010963 C>G sono risultati significativamente associati alla tossicità globale (rispettivamente: p = 0.031; p = 0.018 e p = 0.003) e cutanea (rispettivamente: p = 0.043; p = 0.019 e p = 0.025) di ogni grado. Inoltre, i pazienti con tossicità globale e cutanea di ogni grado hanno mostrato una migliore PFS e OS (tossicità globale: PFS 7.0 vs 5.0 mesi; p = 0.016 e OS 26.8 vs 13.0 mesi; p = 0.023; tossicità cutanea: PFS 7.6 vs 5.1 mesi; p = 0.033 e OS 22.7 vs 13.3 mesi; p = 0.014). In conclusione, l’analisi dei pazienti con polimorfismo T in rs833061, C in rs699947 e C in rs2010963 ha indicato un più alto tasso di tossicità e, in accordo con un precedente studio, questa correla con una migliore sopravvivenza libera da progressione e globale. L’analisi dei polimorfismi dei geni di VEGF e dei suoi recettori rappresenta, dunque, uno strumento clinico per identificare i pazienti con risposta favorevole a sorafenib presumibilmente correlata a un più efficiente controllo della crescita tumorale. La manifestazione di tossicità potrebbe essere un interessante surrogato clinico durante il trattamento con sorafenib e potrebbe aiutare i clinici in una gestione più cauta e consapevole dei pazienti con carcinoma epatico.

RECETTORE PER GLI ANDROGENI, E-CADHERINA E Ki-67 QUALI MARCATORI PROGNOSTICI NEL TUMORE MAMMARIO TRIPLO NEGATIVO

I dati presentati al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract) da ricercatori dell’Università di Messina in collaborazione con colleghi del Vall d’Hebron Institute of Oncology di Barcellona suggeriscono che l’espressione del recettore per gli androgeni (AR) e di E-cadherina e lo stato di Ki-67 potrebbero essere utili marcatori prognostici nel tumore mammario triplo negativo (TNBC). Questo è un sottotipo aggressivo del tumore mammario che presenta coinvolgimento metastatico del sistema nervoso centrale e viscerale e rappresenta un sottotipo molecolare che non ha una specifica terapia target. Lo studio osservazionale, retrospettivo ha incluso 45 pazienti con TNBC e aveva lo scopo di valutare l’espressione di alcuni determinanti molecolari come AR, E-cadherina e Ki-67 in relazione al tipo istologico, al tempo alla recidiva e alla sopravvivenza globale. L’immunoistochimica (IHC) è stata utilizzata per esaminare i campioni di tumore, fissati in formalina e imbevuti in paraffina, ottenuti dalle pazienti definite TNBC per l’assenza (0%) di recettori per estrogeni (ER) e progesterone (PgR) e HER2 negative (punteggio IHC 0-1 o FISH non amplificato). L’età mediana della pazienti era 58.8 anni (range: 39 – 77). Il principale tipo istologico era il duttale (35 pazienti, 77%), seguito dal lobulare (7 pazienti, 15.5%) e dal midollare (3 pazienti, 6.6%); 29 pazienti (64.4%) avevano tumore G3. Lo stadio tumorale era: stadio I in 6 pazienti delle 45 (13.3%), IIA in 21 (46.6%), IIIA in 11 (24.4%), IIIB in 3 (6.6%) e IV in 4 (8.8%). Tutte le pazienti hanno ricevuto il trattamento; i regimi più frequentemente utilizzati erano antracicline e taxani. AR è risultato positivo (IHC > 10%) in 12 delle 45 pazienti esaminate (26.6%). L’espressione di E-cadherina è stata analizzata con dosaggio semi-quantitativo che ha calcolato la percentuale di cellule che mostravano positività di membrana: 0 (0 – 10%), 1+ (10 – 30%), 2+ (30 – 70%) e 3+ (> 70%); l’espressione era considerata positiva se il punteggio era ≥2 e negativa quanto ≤ 1. L’espressione di E-cadherina è risultata negativa in 24 dei 45 casi (53.3%). L’indice Ki-67 è risultato ≥ 25% in 17 pazienti (37.7%). L’analisi statistica ha indicato che le pazienti negative a AR e positive a Ki-67 mostravano una correlazione significativa con l’istotipo duttale e i tumori G3 (p < 0.001). L’analisi multivariata ha indicato che le pazienti negative ad AR ed E-cadherina ma positive a Ki-67 avevano un tempo di sopravvivenza globale significativamente peggiore (p < 0.001) di quelle risultate positive ad AR o E-cadherina ma negative all’espressione di Ki-67. In conclusione, i dati di questo studio suggeriscono che la combinazione dell’espressione di recettore per gli androgeni e di E-cadherina, così come lo stato Ki-67, possono essere utili marcatori prognostici nel tumore mammario triplo negativo.

MITO-7, STUDIO MULTICENTRICO RANDOMIZZATO DI FASE III: CARBOPLATINO E PACLITAXEL UNA VOLTA A SETTIMANA VS OGNI 3 SETTIMANE IN PAZIENTI CON TUMORE OVARICO AVANZATO

Rispetto alla terapia standard con carboplatino e paclitaxel (CP), ogni 3 settimane, la somministrazione settimanale non ha mostrato alcun vantaggio significativo, ma è stata associata a una migliore qualità di vita (QoL) e a un più basso profilo di tossicità. Il regime di CP ogni 3 settimane rappresenta la chemioterapia standard di prima linea nelle pazienti con carcinoma ovarico avanzato (AOC). In uno studio di fase III del Japanese Gynecologic Oncology Group (JGOG), la somministrazione settimanale di paclitaxel combinata a carboplatino ogni 3 settimane ha mostrato una più lunga sopravvivenza libera da progressione (PFS) e sopravvivenza globale (OS). MITO-7 (Multicenter Italian Trials in Ovarian Cancer), nell’ambito dell’European Network of Gynaecological Oncological Trial Groups (ENGOT-ov-10) and Gynecologic Cancer Intergroup (GCIG), è uno studio europeo randomizzato, di fase III, che ha comparato la somministrazione di CP ogni 3 settimane vs settimanale. Pazienti con AOC, mai trattate con la chemioterapia, in stadio IC-IV, di età ≤ 75 anni, performance status ECOG ≤ 2, sono state randomizzate a CP ogni 3 settimane (carboplatino AUC = 6 + paclitaxel 175 mg/m2, al giorno 1 ogni 21 giorni) per 6 cicli o a CP settimanale (carboplatino AUC = 2 + paclitaxel 60 mg/m2) per 18 somministrazioni. Endpoint co-primari erano la PFS e la QoL, misurata con i questionari FACT-O (Functional Assessment of Cancer Therapy-Ovarian) e FACT/GOG-Ntx (Functional Assessment of Cancer Therapy/Gynecologic Oncology Group-Neurotoxicity). Per ottenere un potere statistico dell’80% di rilevare un HR di 0.75, aa due code = 0.05, della PFS erano necessari 383 eventi. I bracci sono stati comparati con test log-rank e modello di Cox, aggiustato per stadio, performance status, malattia residuale, età e volume del centro, secondo ‘intention-to-treat’. La QoL è stata misurata prima del trattamento (basale) e ogni settimana per 9 settimane. L’interazione tra braccio e tempo di QoL è stata testata in un modello lineare misto. La tossicità è stata classificata con i criteri NCI-CTCAE (National Cancer Institute, Common Terminology Criteria for Adverse Events), vers. 3.0. In totale, dagli investigatori dei gruppi MITO, MANGO (Mario Negri Gynecologic Oncology) e GINECO (Groupe d’Investigateurs Nationaux pour l’Etude des Cancers Ovariens) sono state arruolate 822 pazienti. L’età mediana era 60 anni, lo stadio III (66%) e IV (18%) erano prevalenti. Al 18 marzo 2013, con un follow-up mediano di 20 mesi, erano stati registrati 410 eventi di PFS. La PFS mediana è risultata di 18.8 mesi con CP settimanale e di 16.5 mesi con il regime CP ogni tre settimane (HR 0.88, IC 95%: 0.72 – 1.06; p = 0.18). L’assenza di differenza significativa è stata confermata al modello di Cox (HR 0.87, IC 95%: 0.71 – 1.05). Nello studio presentato al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), in tutti i punteggi, il decorso di QoL è risultato significativamente differente nei due bracci (p < 0.0001): con CP ogni 3 settimane, i punteggi di QoL sono chiaramente peggiorati dopo ciascun ciclo di chemioterapia (alle settimane 1, 4 e 7), mentre con CP settimanale, dopo un modesto e transitorio peggioramento alla prima settimana, i punteggi sono rimasti stabili. Considerando i gradi più severi (≥ 3), il regime settimanale ha evocato significativamente meno sintomi di neutropenia, neutropenia febbrile, trombocitopenia, tossicità renale e neuropatia. In conclusione, rispetto alla chemioterapia standard (carboplatino-paclitaxel ogni 3 settimane) il regime settimanale non ha mostrato un significativo beneficio della sopravvivenza libera da progressione, ma ha migliorato la qualità di vita e offerto minore tossicità nelle pazienti con carcinoma ovarico avanzato.

Fonte ASCO
Supplemento ad AIOM News
Editore Intermedia
Direttore responsabile Mauro Boldrini

Lo speciale ASCO 2013 è reso possibile grazie a un educational grant di Boehringer-Ingelheim
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