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3 Giugno 2013

SPECIALE ASCO 2013 – N. 3, 03/06/2013

Chicago, 3 giugno 2013

RACCOMANDAZIONI ASCO: VANNO GARANTITI TARGET DI PROGRESSO SUPERIORI

Bisogna aumentare il target dei progressi reali, in termini di sopravvivenza e qualità della vita, che un nuovo farmaco antitumorale deve comportare rispetto ai precedenti per poter essere approvato. Questa proposta arriva dal più grande congresso mondiale di oncologia, quello dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), in corso fino al 4 giugno a Chicago. Un tema dalle grandi implicazioni, finanziarie ma anche etiche: sono molti i farmaci oncologici che determinano un aumento della sopravvivenza davvero minimi, anche di poche settimane: se la proposta venisse accettata dall’ente regolatorio Americano, l’FDA, e in futuro da quello europeo, l’EMA, le nuove molecole dovrebbero garantire target di miglioramenti ben superiori. Per ora gli oncologi riuniti al congresso l’ASCO propongono di alzare i target per gli studi clinici su pancreas, polmone, mammella e colon. Una raccomandazione, quella di alzare l’ ’asticella’ per i nuovi farmaci, che vede d’accordo oncologi e pazienti, che hanno collaborato attivamente alla stesura del documento. Nello specifico, le raccomandazioni dell’ASCO prevedono che per il cancro al pancreas i nuovi farmaci debbano garantire un aumento di sopravvivenza di almeno il 50 per cento, considerando anche tossicità del trattamento e qualità della vita. Per il cancro al polmone si richiedono progressi di almeno un +25 per cento di sopravvivenza, per quello al seno un +20 per cento, per quello al colon un aumento di almeno 3-5 mesi di sopravvivenza media. “Criteri più rigidi e meno sfumati – commenta il presidente dell’AIFA Sergio Pecorelli, presente al congresso di Chicago – sono dovuti al fatto che troppo spesso vengono approvati e rimborsati farmaci i cui vantaggi sono modesti. Questo pone però un interrogativo etico: si può dire che un vantaggio di un mese di vita sia poco? Applicare un criterio statistico alla durata di una vita è sempre qualcosa di molto delicato, anche se il richiamo a paletti precisi è fondamentale”.

LUX-LUNG 6: STUDIO RANDOMIZZATO, APERTO, DI FASE III DI AFATINIB VS GEMCITABINA/CISPLATINO IN PRIMA LINEA NEI PAZIENTI ASIATICI CON ADENOCARCINOMA DEL POLMONE IN STADIO AVANZATO E MUTAZIONE EGFR

Afatinib ha prolungato significativamente la sopravvivenza libera da progressione (PFS) con un significativo miglioramento dei tassi di risposta obiettiva (ORR), di controllo della malattia (DCR) e degli ‘outcome’ riportati dai pazienti (PRO). Gli eventi avversi in entrambe i bracci di trattamento non si sono discostati dalle aspettative, con un profilo più favorevole nel braccio randomizzato ad afatinib. Afatinib è un inibitore orale, irreversibile, della famiglia ErbB, che blocca il segnale di EGFR (ErbB1), HER2 (ErbB2) e ErbB4. Afatinib era risultato superiore alla terapia di prima linea con pemetrexed e cisplatino in uno studio globale di fase III (LUX-Lung 3) in pazienti con tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC) positivi alla mutazione di EGFR (EGFR M+). Lo studio, presentato al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), condotto in Paesi asiatici, ha esaminato sicurezza ed efficacia di afatinib in prima linea rispetto alla combinazione gemcitabina/cisplatino in pazienti asiatici con EGFR M+. Dopo l’analisi centralizzata delle mutazioni di EGFR (con TheraScreen EGFR RGQ PCR kit), 364 pazienti in stadio IIIB/IV, performance status 0 – 1, mai trattati con chemioterapia, sono stati randomizzati (2:1) ad afatinib (n = 242; 40 mg per os) o alla combinazione di gemcitabina/cisplatino (n = 122; 1000 mg/m2 per via endovenosa al giorno 1, seguito da 8 + 75 mg/m2 ogni 21 giorni fino a un massimo di 6 cicli). Endpoint primario era la PFS, ottenuta con revisione centrale indipendente. Le caratteristiche basali dei pazienti erano bilanciate nei due bracci di trattamento (afatinib vs gemcitabina/cisplatino): femmine (64.0 vs 68.0%), non fumatori (74.8 vs 81.1%), delezione dell’esone 19 (51.2 vs 50.8%) e mutazione L858R (38.0 vs 37.7%). La PFS è risultata significativamente più lunga con afatinib quando comparata a gemcitabina/cisplatino, dopo revisione indipendente (PFS mediana: 11.0 vs 5.6 mesi; HR 0.28; p < 0.0001): questi risultati si mantenevano in tutti i sottogruppi considerati. I dati ottenuti dalla revisione degli investigatori erano simili (HR 0.26; p < 0.0001; mediana 13.7 vs 5.6 mesi per afatinib vs gemcitabina/cisplatino). ORR (66.9 vs 23.0%; p < 0.0001) e DCR (92.6 vs 76.2%; p < 0.0001) erano significativamente più elevati con afatinib e la OS, basata sul 43% degli eventi, ha mostrato un HR di 0.95 (p = 0.7593). Gli eventi avversi più comuni con afatinib erano rash cutaneo/acne (14.6%), diarrea (5.4%) e stomatite/mucosite (5.4%), mentre con la combinazione gemcitabina/cisplatino erano neutropenia (17.7%), vomito (15.9%) e leucopenia (13.3%). Eventi avversi correlati hanno portato a sospensione del trattamento nel 5.9% con afatinib e nel 39.8% con gemcitabina/cisplatino dei pazienti. Gli ‘outcome’ riportati dai pazienti (PRO) hanno mostrato un controllo di dispnea, tosse e dolore, legati al cancro, significativamente migliore nei pazienti trattati con afatinib. In conclusione, nei pazienti asiatici EGFR M+, afatinib ha significativamente prolungato la PFS con un miglioramento statistico anche dei tassi di risposta obiettiva, di controllo della malattia e degli ‘outcome’ riportati dai pazienti. Gli eventi avversi erano come atteso per entrambe i bracci di trattamento, con un profilo di sicurezza più favorevole con afatinib. Lo studio LUX-Lung 6 è il più ampio, ad oggi, studio prospettico sul tumore del polmone EGFR M+ e offre ulteriore evidenza della superiorità di afatinib rispetto alla chemioterapia standard in questo ambito terapeutico.

STUDIO DI FASE III DECISION CON SORAFENIB IN PAZIENTI CON TUMORE DIFFERENZIATO DELLA TIROIDE, REFRATTARIO A RADIO-IODIO, LOCALMENTE AVANZATO O METASTATICO

Sorafenib ha mostrato un significativo miglioramento della sopravvivenza libera da progressione (PFS) rispetto al placebo in pazienti con tumore differenziato della tiroide, refrattario al radio-iodio, in progressione. Sorafenib è un inibitore delle chinasi di VEGFR1-3 e Raf, attivo per via orale, che ha mostrato una promettente attività clinica in studi di fase II, in singolo braccio, condotti in pazienti con tumore differenziato della tiroide refrattario al radio-iodio. Lo studio DECISION di fase III, multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, ha esaminato l’efficacia e la sicurezza di sorafenib, rispetto al placebo, in pazienti con tumore differenziato della tiroide, refrattario a radio-iodio, localmente avanzato o metastatico. I pazienti, che avevano mostrato progressione nei 14 mesi precedenti, sono stati randomizzati (1:1) a sorafenib (400 mg b.i.d. per os) o placebo. Ai pazienti nel braccio a placebo è stato permesso il passaggio a sorafenib, in aperto, alla progressione della malattia. Endpoint primario era la PFS, valutata ogni 8 settimane con revisione radiologica indipendente utilizzando i criteri RECIST 1.0 modificati e analizzata con statistica log-rank con stratificazione, considerando α = 0.01 (a una coda). Endpoint secondari erano la sopravvivenza globale (OS), il tasso di risposta (RR: risposta completa + parziale [PR]) e la sicurezza. In totale, sono stati randomizzati 417 pazienti (207 a sorafenib e 210 a placebo), con un’età mediana di 63 anni e il 52% di sesso femminile. L’istologia tumorale, dopo valutazione indipendente, è risultata papillare nel 57% dei casi, follicolare nel 25% e poco differenziata nel 10%. Il 96% dei pazienti aveva malattia metastatica e le lesioni target più comuni erano polmoni (71%), linfonodi (40%) e ossa (14%). Nello studio, presentato al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), l’endpoint primario è stato raggiunto; la PFS mediana era 10.8 mesi nel braccio a sorafenib e 5.8 mesi in quello a placebo (HR 0.58, IC 95%: 0.45 – 0.75; p < 0.0001). La OS mediana non è stata raggiunta in nessuno dei due bracci: il 70% dei pazienti randomizzati a placebo ha iniziato l’assunzione di sorafenib in aperto. RR (tutte PR) è risultato 12.2 vs 0.5% (p < 0.0001), rispettivamente nei bracci a sorafenib vs placebo, e la stabilizzazione della malattia per un periodo ≥ 6 mesi era pari rispettivamente al 42 vs 33%. Gli eventi avversi, causati dal trattamento, di ogni grado, più comuni nel braccio a sorafenib includevano reazione cutanea mano-piede, diarrea, alopecia, rash cutaneo/desquamazione, fatigue, perdita di peso e ipertensione. Un decesso, in entrambe i bracci, è stato attribuito al farmaco in studio. In conclusione, sorafenib ha significativamente migliorato la sopravvivenza libera da progressione, rispetto al placebo, nei pazienti con tumore differenziato della tiroide, refrattario a radio-iodio, in progressione. La tollerabilità era comparabile al già noto profilo di sicurezza di sorafenib.

BOLERO-3: STUDIO MULTICENTRICO DI FASE III CHE HA COMPARATO EVEROLIMUS IN SOMMINISTRAZIONE GIORNALIERA VS SETTIMANALE E VINORELBINA NEL TUMORE MAMMARIO AVANZATO RESISTENTE A TRASTUZUMAB

L’analisi finale, presentata al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), ha indicato una migliore sopravvivenza libera da progressione (PFS) dopo aggiunta di everolimus nelle pazienti con tumore mammario HER2+ (human epidermal growth factor receptor 2), localmente avanzato o metastatico, resistente a trastuzumab. Everolimus è un inibitore di mTOR (mammalian target of rapamycin), una protein-chinasi fondamentale in diverse vie del segnale che regolano la crescita e la proliferazione cellulare. I dati ottenuti da studi preclinici e clinici di fase I-II hanno indicato che l’aggiunta di everolimus a trastuzumab e chemioterapia può ristabilire la sensibilità e aumentare l’efficacia della terapia target verso HER2. Lo studio internazionale, multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, di fase III, BOLERO-3, ha valutato l’effetto dell’aggiunta di everolimus a trastuzumab e vinorelbina. Donne adulte con tumore mammario avanzato HER2+ che avevano precedentemente ricevuto terapia contenente un taxano e manifestato recidiva o progressione durante la somministrazione di trastuzumab sono state randomizzate (1:1) a everolimus (5 mg al giorno) o placebo in combinazione a trastuzumab (2 mg/kg) e vinorelbina (25 mg/m2) ogni settimana. Endpoint primario era la PFS; endpoint secondari includevano la sopravvivenza globale (OS), il tasso di risposta, il tasso di beneficio clinico, la sicurezza, la qualità di vita e la farmacocinetica. L’analisi finale è stata programmata dopo circa 417 eventi di PFS. Nello studio, tra ottobre 2009 e maggio 2012, sono state arruolate 569 pazienti. La precedente terapia includeva trastuzumab (100%), un taxano (100%) e lapatinib (28%). L’età mediana era 54 anni e il 76% delle pazienti aveva metastasi viscerali, il 5% metastasi stabili al cervello, il 56% malattia positiva ai recettori ormonali, il 33% performance status ECOG (Eastern Cooperative Oncology Group) 1 o 2 e il 41% presentava 3 o più siti metastatici. Il numero mediano di linee di chemioterapia precedentemente somministrata per la malattia metastatica era 1. Entro il 4 febbraio 2013 sono stati registrati 396 eventi di PFS. Lo studio ha raggiunto il suo endpoint primario: la PFS mediana è risultata di 7.00 mesi nel braccio a everolimus vs 5.78 mesi in quello a placebo (HR 0.78; IC 95%: 0.65 – 0.95; p = 0.0067), con un maggiore effetto apparente nelle pazienti sotto i 65 anni (anche se limitato dal basso numero di pazienti più anziane). I risultati dell’analisi indicano, inoltre, che everolimus ha migliorato la PFS nelle pazienti con tumori negativi ai recettori ormonali (HR 0.65, IC 95%: 0.48 – 0.87), ma non in quelle con tumori positivi a questi recettori (HR 0.93; IC 95%: 0.72 – 1.20). Il follow-up era insufficiente per la valutazione della OS. Al 15 marzo 2013 erano stati osservati 220 decessi, il 36.3% nel braccio a everolimus e il 41.1% in quello a placebo, senza raggiungere significato statistico all’analisi ad interim. Un’analisi completa di OS sarà condotta dopo manifestazione di 384 eventi di morte. Il tasso di risposta globale (risposta completa o parziale) è risultato pari al 40.8% nel braccio a everolimus e al 37.2% in quello a placebo (p = 0.2108) e il tasso di beneficio clinico (risposta obiettiva o stabilizzazione per 24 o più settimane) non ha raggiunto differenza statistica significativa tra i due gruppi (rispettivamente 59.2 vs 53.3%; p =0.0945). Anche la qualità di vita non ha mostrato differenze tra i due bracci. In conclusione, nell’analisi finale dello studio BOLERO-3 l’aggiunta di everolimus ha migliorato la sopravvivenza libera da progressione in pazienti con tumore mammario HER2+, localmente avanzato o metastatico, resistente a trastuzumab.

IDENTIFICAZIONE DI SOTTOGRUPPI PROGNOSTICI RILEVANTI IN PAZIENTI IN POST-MENOPAUSA CON TUMORE MAMMARIO INIZIALE HR+, LINFONODO-POSITIVO, TRATTATE CON TERAPIA ENDOCRINA

L’analisi combinata di 2485 pazienti coinvolte negli studi ABCSG-8 e ATAC, utilizzando il punteggio del rischio di recidiva (ROR) PAM50 e sottotipo intrinseco (IS), indica che una proporzione significativa di pazienti con tumore mammario iniziale e un linfonodo positivo hanno un rischio di recidiva a lungo termine molto limitato e suggerisce lo stesso per alcune donne che presentano due linfonodi positivi. La maggior parte delle donne in post-menopausa con tumore mammario iniziale HR+ e positività linfonodale riceve chemioterapia adiuvante. Gli autori di questa analisi combinata, presentata al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), hanno ipotizzato che una caratterizzazione molecolare del rischio residuale dopo terapia endocrina, utilizzando il punteggio ROR e IS, potesse meglio identificare sottogruppi di pazienti linfonodo-positive a limitato rischio di recidiva a lungo termine dopo terapia endocrina, rispetto alla sola valutazione del rischio patologico clinico con il punteggio di trattamento clinico (CTS). Il follow-up a lungo termine e i campioni di tessuto sono stati ottenuti per 2485 pazienti HR+ in post-menopausa incluse negli studi ABCSG-8 (n = 1478) e transATAC (n = 1007). Il test PAM50 è stato condotto su RNA estratto da blocchi di paraffina, utilizzando il sistema NanoString nCounter Analysis. La capacità di ROR, IS e dei gruppi di rischio definiti da ROR (ROR-RG), di fornire informazioni prognostiche aggiuntive a CTS è stata valutata con il test del quoziente di probabilità nell’ambito di un piano di analisi prospetticamente definito. Le pazienti incluse nell’analisi dei dati combinati sono state raggruppate per numero di linfonodi positivi in N1 (con 1 linfonodo positivo), N2 (con 2 linfonodi positivi) o N2 – 3 (con 2 o 3 linfonodi positivi). I rischi basali per questi sottogruppi erano simili nei due studi considerati. Il punteggio ROR, IS e ROR-RG, ha aggiunto informazione prognostica significativa (rischio a 10 anni di recidiva a distanza) rispetto a CTS, in tutti i gruppi esaminati. In pazienti con un solo linfonodo positivo, il rischio assoluto a 10 anni di recidiva a distanza è risultato pari al 6.6% (IC 95%: 3.3 – 12.8) nel gruppo a basso rischio PAM50 (40% delle pazienti) e all’8.4% (IC 95%: 5.3 – 13.3) nel sottogruppo luminale A (69% delle pazienti). In conclusione, i risultati di questa analisi combinata dimostrano che una proporzione significativa di pazienti con tumore mammario iniziale e un solo linfonodo positivo hanno un rischio di recidiva a lungo termine molto limitato e suggerisce lo stesso per alcune pazienti nel gruppo N2. Il punteggio ROR PAM50, IS e ROR-RG, offre dunque ulteriore informazione prognostica affidabile rispetto a CTS e può essere utile nella scelta di quali pazienti con tumore mammario iniziale HR+ linfonodo-positivo possano evitare la chemioterapia adiuvante.

IMPATTO DEI POLIMORFISMI DI DEFICIENZA DELLA DPD, IVS14+1G>A E 2846A>T, SULL’OUTCOME DI TOSSICITÀ IN PAZIENTI TRATTATI CON REGIMI CONTENENTI FUORO-PIRIMIDINE

I portatori di polimorfismi con effetti deleteri IVS14+1G>A e 2846T>C mostrano tossicità gravi che possono risultare fatali in pazienti con la variante omozigote. Potrebbe quindi essere utile uno screening della diidro-pirimidina deidrogenasi (DPD) nei pazienti candidati al trattamento con fluoro-pirimidine. La deficienza di DPD è una sindrome ereditaria che deriva da mutazioni, con perdita della funzione, nel gene DPYD. La variante IVS14+1G>A è associata a deficienza di DPD come risultato di una delezione di 165-bp nell’RNA messaggero di DPD. Una mutazione rara, 2846T>C, caratterizzata da uno scambio dell’acido aspartico con valina, aminoacido alifatico, porterebbe invece a disaccoppiamento dell’attività enzimatica (Amstutz et al., 2011). In questo studio italiano, presentato al 49mo Congresso Annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) (leggi abstract), gli investigatori descrivono lo spettro di tossicità di 5-fluorouracile (5-FU) e capecitabina in pazienti portatori delle varianti IVS14+1G>A e 2846A>T. I dati sono stati raccolti da 450 pazienti con tumori gastrointestinali, della mammella e del pancreas, nei quali è stato valutato il genotipo DPD al momento dello sviluppo di tossicità non ematologica di grado ≥ 2 ed ematologica di grado ≥ 3 (CTCAE v. 4), secondarie a somministrazione di regimi standard contenenti fluoro-pirimidine in combinazione con altri agenti citotossici e/o anticorpi anti-EGFR e anti-VEGF. Il DNA è stato estratto dal sangue e le varianti di DPD IVS14+1G>A e 2846T>C sono state esaminate su piattaforma Real-Time Life Sciences 7900 HT. Lo studio, supportato dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC, Milano) e dall’Istituto Toscano Tumori (ITT, Firenze), è stato approvato dal Comitato Etico locale di ogni singolo centro coinvolto. In totale, sono stati identificati 23 pazienti portatori di variante IVS14+1GA, 4 con 2846AT, uno con IVS14+1AA e uno con 2846TT. Le tossicità, in tutti i pazienti, erano: diarrea di grado (G) 3/4 (100%), mucosite G3/4 (48%), neutropenia febbrile (45%), trombocitopenia G3/4 (38%), anemia G3/4 (24%), sindrome mano-piede G2/3 (14%), dermatite G3 (7%) e alopecia G2/4 (7%). La paziente portatrice di IVS14+1AA omozigote è sopravvissuta perché le è stata somministrata una dose test ridotta di 5-FU (250 mg/m2) senza folati, mentre un altro paziente con variante 2846TT è deceduto dopo il primo ciclo di trattamento con FOLFOX4. In conclusione, i pazienti portatori di varianti alleliche IVS14+1G>A e 2846T>C ad effetto deleterio sviluppano tossicità gravi che sono fatali negli omozigoti. Questi risultati suggeriscono l’utilità dello screening di DPD prima del trattamento nei pazienti candidati alla terapia con fluoro-pirimidine.

Fonte ASCO
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Direttore responsabile Mauro Boldrini
Lo speciale ASCO 2013 è reso possibile grazie a un educational grant di Boehringer-Ingelheim
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