EPATITE B: 350 MILIONI DI CASI NEL MONDO
Il virus non è direttamente citopatico, ma sono piuttosto la differente capacità di risposta immunitaria dell’ospite e l’eventuale sviluppo di varianti virali, a determinare le varie forme di epatite. L’epatite cronica attiva può essere conseguenza di un’epatite acuta o di un’infezione asintomatica. Qualsiasi paziente con transaminasi alterate da almeno sei mesi e con anamnesi positiva per possibile contagio da HBV può essere affetto da epatite cronica attiva. Per la diagnosi è essenziale l’esame bioptico del parenchima epatico. I pazienti con epatite cronica attiva hanno una sopravvivenza di cinque anni nell’86% dei casi, nel 55% se è già presente la cirrosi. Qualsiasi tipo di terapia deve mirare a bloccare sia l’evoluzione cirrogena della malattia che l’integrazione del virus nel genoma ospite, con il conseguente rischio di carcinogenicità. Gli antivirali maggiormente utilizzati sono attualmente gli interferoni. Sono polipeptidi prodotti dalle cellule in risposta a sintomi virali o di altra natura, che hanno tra gli effetti principali quello di indurre uno stato antivirale, per cui viene impedito al virus infettante di penetrare in altre cellule. Inoltre esplicano diverse azioni immunomodulanti importanti nell’eliminazione dei virus infettanti. La loro efficacia, però, è ridotta e gli effetti collaterali pesanti. La lamivudina, farmaco nato contro l’infezione da Hiv, si è dimostrato efficace nel bloccare e inibire la replicazione del virus dell’epatite B, riducendo significativamente la percentuale di pazienti che diventano cirrotici. Importante cardine rimane tuttavia la prevenzione dell’epatite B, prevenzione che si attua principalmente con l’educazione sanitaria della popolazione a rischio, lo screening del sangue e dei suoi derivati, l’immunizzazione passiva con immunoglobuline iperimmuni specifiche e la vaccinazione.