domenica, 30 giugno 2024
Medinews
9 Febbraio 2000

LAMIVUDINA, UN’ARMA IN PIU’ CONTRO L’EPATITE B

Sopprime inoltre in modo rapido e marcato la replicazione del virus inibendone la sintesi del DNA genomico, è ben assorbita, e la sua biodisponibilità assoluta nelle formulazioni orali varia tra l’80 e l’85%. Eventuali modifiche del dosaggio sono necessarie solo nei pazienti in età pediatrica e con compromissione moderata o grave della funzionalità renale. La terapia con lamivudina migliora il quadro istologico, diminuendo o abolendo la necro-infiammazione epatica, riduce la progressione della fibrosi e aumenta la percentuale di sieroconversione dall’antigene e dell’epatite B (HBeAg) all’anticorpo omologo (anti-HBe) nei pazienti infetti dall’HBV selvaggio.
Le probabilità di sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe aumentano in funzione del tempo di terapia: nel 30% circa dei casi dopo tre anni. Nei pazienti con epatite B cronica causata da mutanti HBeAg minus dell’HBV, la terapia continuativa con lamivudina controlla la replicazione dell’HBV, mantiene nella normalità il profilo enzimatico e migliora l’istologia.
L’unica terapia disponibile finora per l’epatite B era l’interferone. Tuttavia la risposta a questo farmaco è limitata, ed è aggravata da effetti collaterali importanti. Grazie all’introduzione della lamivudina, le opzioni terapeutiche includono oggi uno specifico farmaco antivirale che si aggiunge agli immunomodulatori nella terapia dell’epatite B cronica. La riduzione della carica virale diminuisce la carica antigenica capace di suscitare attacco immunitario. La risposta ai farmaci antivirali, se confrontata con la risposta agli immunomodulatori, è meno dipendente da fattori e caratteristiche individuali del paziente che viene trattato ed il trattamento può quindi essere somministrato in un unico standard posologico a vari individui con diverse caratteristiche demografiche e cliniche.
La lamivudina è il primo antivirale specifico per il trattamento dell’epatite B cronica disponibile per uso generale. La sua sicurezza e l’efficacia clinica offrono vantaggi sostanziali rispetto alle terapie alternative, e consentono di migliorare sia il profilo virologico che la malattia epatica.
Modalità d’azione
La principale modalità d’azione della lamivudina consiste nell’inibire la sintesi del DNA virale, soprattutto l’incorporazione di ulteriori nucleosidi nell’HBV-DNA di nuova sintesi, un processo che conduce all’arresto dell’allungamento (terminazione) della catena genomica nascente.
Efficacia clinica
Le ricerche precliniche e gli studi di farmacologia clinica hanno stabilito che la lamivudina è dotata di una potente attività antivirale contro l’HBV, sia in vitro che nel modello animale, ed hanno identificato i dosaggi idonei ad una valutazione d’efficacia del farmaco nell’uomo. Il profilo di sicurezza e l’attività antivirale della lamivudina nell’uomo sono stati valutati in studi clinici di fase II, mirati ad ottimizzare parametri quali la dose, la durata e la frequenza di somministrazione, e in studi di fase III, per valutare la sicurezza di una terapia protratta nel tempo.
La lamivudina è stata ben tollerata in tutti i gruppi di pazienti studiati. Nei trial clinici di fase II e di fase III non è stato osservato alcun aumento dell’incidenza, o variazione della natura, di eventi indesiderati correlabili a un aumento del dosaggio o alla durata del trattamento. Solo in casi rari si è dovuta sospendere la somministrazione a causa di eventi avversi. I dati pre-clinici ottenuti in una serie di test in vitro e su animali hanno indicato un buon profilo di sicurezza, rilevato anche in studi di tossicità a dosi acute e ripetute su roditori, cani e primati a concentrazioni plasmatiche significativamente superiori a quelle poi usate in clinica. Inoltre non si è dimostrata irritante per gli occhi e la pelle, né ha mostrato alcun potenziale di sensibilizzazione per contatto. Infine non ha suscitato effetti collaterali significativi a livello del sistema nervoso centrale o del sistema nervoso autonomo, né sull’apparato respiratorio o cardiovascolare.
Negli studi di fase I sull’uomo sono state valutate sicurezza e tollerabilità dopo somministrazione orale ed endovenosa a dosi singole o ripetute. Si sono osservati solo eventi indesiderati minori, quali cefalea e nausea, ed è stato difficile stabilire un rapporto di causa-effetto con il farmaco a causa della mancanza di dati relativi al placebo. Non si sono verificati effetti emodinamici (su pressione arteriosa o frequenza cardiaca) clinicamente significativi, variazioni dell’elettrocardiogramma o alterazioni dei parametri di laboratorio al di fuori dei limiti di sicurezza. Le dosi singole di lamivudina sono state ben tollerate anche da pazienti con insufficienza renale o epatica. Negli studi clinici di fase II, l’incidenza degli eventi indesiderati è stata simile sia in pazienti trattati con lamivudina che in pazienti trattati con placebo. La maggior parte sono stati di lieve entità e non ascrivibili alla lamivudina. Negli studi di fase III l’incidenza di eventi indesiderati durante la terapia è stata nettamente superiore nei gruppi di trattamento che includevano interferone alfa.
La replicazione dell’HBV ed il livello della transaminasi sierica nel sangue tornano solitamente ai livelli pretrattamento se si interrompe la somministrazione di lamivudina prima della sieroconversione da HBeAg ad anti-Hbe. Raramente, i pazienti che interrompono la terapia con lamivudina possono presentare un rialzo post-trattamento della transaminasi a valori superiori ai livelli pre-terapia.
Conclusioni
I risultati degli studi clinici controllati indicano che la lamivudina costituisce un nuovo, importante approccio terapeutico per pazienti con epatite B cronica e dimostrano che la terapia con lamivudina ottiene benefici clinici nella maggior parte dei pazienti trattati. Questi benefici includono il miglioramento dei fenomeni necro-infiammatori epatici, la riduzione della progressione della fibrosi epatica, la normalizzazione del livello di transaminasi nel sangue e un tasso aumentato di sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe.
Gli studi di fase III hanno evidenziato che, in pazienti con epatite cronica B HBeAg-positiva, la terapia con lamivudina per 1 anno produce percentuali di sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe simili a quelle ottenute con Interferone alfa. Inoltre, i risultati di 2 anni di terapia indicano che le percentuali cumulative di sieroconversione continuano a crescere con il protrarsi della terapia con lamivudina, un effetto che non viene osservato con l’interferone alfa. Anche in assenza di sieroconversioni, la terapia con lamivudina migliora l’epatopatia in molti pazienti. Questo risultato contrasta con la tipica risposta clinica all’interferone alfa, in cui una remissione protratta della malattia risulta più strettamente correlata alla sieroconversione da HBeAg ad anti-HBe e in genere non è documentabile in sua assenza.
La lamivudina si è dimostrata efficace anche nei pazienti con epatite cronica B, HBeAg-negativa anti-HBe positiva, sostenuta dai ceppi di HBV con mutazioni nella regione pre-core. In questi pazienti il farmaco è stato in grado di reprimere la viremia, prevenendo la recrudescenza della citolisi epatica.
In parte dei pazienti, la terapia protratta ha indotto la comparsa di ceppi di HBV (varianti YMDD) con ridotta sensibilità in vitro alla lamivudina. Sebbene i benefici clinici siano stati maggiori nei pazienti che non hanno sviluppato tali varianti, la terapia con lamivudina, se confrontata con placebo, ha comunque apportato miglioramenti nella maggior parte dei parametri di risposta indipendentemente dallo sviluppo di varianti YMDD. Negli studi di fase III, l’incidenza di eventi indesiderati è stata simile nei pazienti trattati con lamivudina ed in quelli trattati con placebo. Gli eventi avversi potenzialmente gravi post-trattamento sono risultati poco comuni e di frequenza simile nei pazienti trattati con lamivudina o placebo. Numerosi dati clinici provano che la lamivudina è un farmaco ben tollerato, efficace e conveniente per pazienti con tutte le forme di epatite B cronica. La lamivudina costituisce pertanto un importante progresso terapeutico per il trattamento di questa malattia diffusa e potenzialmente fatale.
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