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31 Maggio 2015

SPECIALE ASCO 2015 – N.2, 31/05/2015

Chicago, 31 maggio 2015

A SILVIO MONFARDINI IL “B.J. KENNEDY AWARD” PER I SUOI STUDI SUI TUMORI DEGLI ANZIANI
Prestigioso riconoscimento internazionale per il prof. Silvio Monfardini, direttore del Programma di Oncologia Geriatrica dell’Istituto “Palazzolo-Fondazione Don Gnocchi” di Milano. Al ricercatore italiano è stato conferito oggi il B.J. Kennedy Award and Lecture for Scientific Excellence in Geriatric Oncology al 51° Congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) in corso a Chicago fino al 2 giugno. Il premio, attribuito per la prima volta a un oncologo italiano, riconosce il contributo decisivo nella ricerca, diagnosi e trattamento del cancro negli anziani. Il professor Monfardini è un autentico esperto di livello internazionale e autore di più di 340 pubblicazioni scientifiche, di cui oltre 95 nel settore dell’oncologia geriatrica. Nel 2014 in Italia sono stati diagnosticati 365.500 nuovi casi di tumore. Il 60% del totale delle neoplasie colpisce gli anziani oltre i 65 anni ed oltre il 70% delle morti per tumore si verifica in questa fascia di età. “Nel nostro Paese – ha spiegato il prof. Silvio Monfardini – finora non è stata riservata sufficiente attenzione a questa popolazione di pazienti, a differenza di quanto avviene ad esempio negli Stati Uniti, in Francia, in Olanda e in Belgio. Serve un cambio di passo e iniziative concrete che coinvolgano questi pazienti. L’accesso alle cure diventa più difficile con l’avanzare degli anni. E gli anziani sono esclusi dalle sperimentazioni cliniche dei farmaci innovativi. Per questo molto spesso non sappiamo come rispenderanno ai nuovi trattamenti”. “Alcune aree specifiche devono essere migliorate – ha continuato il prof. Monfardini -. Ad esempio, è fondamentale diminuire in questi pazienti il rischio operatorio con una valutazione geriatrica prima dell’intervento. Un aiuto potrebbe essere offerto in casi selezionati per alcune neoplasie dalla cosiddetta Radiologia Intervenzionale, meno invasiva, ma sono troppo pochi gli studi per i pazienti anziani in questo ambito. Un altro settore che merita particolare attenzione, finora sottovalutato, è quello costituito dagli anziani lungosopravviventi, per cui i controlli di follow up dovrebbero anche considerare gli aspetti legati ad altre malattie associate e i difetti funzionali non solo quindi quelli oncologici. Infatti il 39% degli italiani che convivono con una precedente diagnosi di tumore (quasi 900.000 persone) ha un’età compresa tra 60 e 74 anni, il 34% è over 75 (oltre 750.000 persone). In quest’ultima fascia di età, la percentuale di cittadini con diagnosi di neoplasia è particolarmente elevata (il 19% degli uomini e il 13% delle donne). E mancano sperimentazioni sui pazienti fragili, non autonomi, che rappresentano almeno il 25% degli over 70”. “La vera chiave di volta – ha concluso il prof. Monfardini –, come ho sottolineato nella lettura magistrale al Congresso ASCO, è rappresentata dalla collaborazione fra geriatri e oncologi. Finora è mancato il dialogo fra queste due categorie di professionisti. Uno scambio che dovrebbe includere anche le altre figure coinvolte, i chirurghi e i radioterapisti. La geriatria dovrebbe entrare nel mondo dell’oncologia medica e viceversa. A Treviso dall’8 all’11 luglio organizzeremo il corso SIOG ASCO Treviso Geriatric Oncology Advanced Course, proprio per costruire una relazione fra le due categorie che parta da una effettiva conoscenza delle rispettive competenze”. Il prof. Monfardini è stato presidente della Società Europea di Oncologia Medica (1984-1987), dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (1986-1988) e della Società Internazionale di Oncologia Geriatrica (2003-2004). Ha diretto l’Oncologia Medica dell’Istituto Oncologico Veneto di Padova ed è stato direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori di Napoli e del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano.

TUMORE DEL COLON-RETTO: È EFFICACE LA COMBINAZIONE DI FARMACI
Il carcinoma al colon-retto è il tumore con la maggiore insorgenza nella popolazione italiana, con quasi 52 mila nuove diagnosi stimate nel 2014, e uno dei più diffusi al mondo, con oltre 1,2 milioni di nuovi casi diagnosticati ogni anno. All’ASCO sono stati presentati importanti aggiornamenti del trial italiano TRIBE e dello studio CALGB/SWOG 80405, che hanno esaminato le opzioni terapeutiche più adatte per il trattamento di questa neoplasia. Il TRIBE è un trial italiano randomizzato di fase III, open label, multicentrico, che confronta l’associazione bevacizumab-FOLFOXIRI rispetto alla combinazione bevacizumab-FOLFIRI. I nuovi dati presentati a Chicago si sono focalizzati sul follow up a 48,1 mesi e hanno dimostrato come l’associazione bevacizumab-FOLFOXIRI abbia permesso di ottenere una sopravvivenza globale (OS) di 29,8 mesi con un significativo vantaggio, per tutti i pazienti arruolati nello studio, rispetto alla combinazione bevacizumab-FOLFIRI (25,8 mesi). Inoltre, con la tripletta bevacizumab-FOLFOXIRI si è registrata una sopravvivenza a 5 anni del 24,9%: un tasso raddoppiato rispetto al 12,4% ottenuto con la doppietta bevacizumab-FOLFIRI. I nuovi dati presentati all’ASCO 2015 hanno messo in luce come i benefici della combinazione bevacizumab-FOLFOXIRI siano superiori, rispetto allo standard terapeutico, in tutti i sottogruppi molecolari esaminati: pazienti RAS mutati, BRAF mutati e wild type. In particolare, nei pazienti BRAF mutati – circa l’8% dei pazienti con tumore metastatico del colon-retto, con un’aspettativa di vita che non supera l’anno – si è raggiunta una sopravvivenza di 19,1 mesi. “I risultati dello studio TRIBE presentati all’ASCO 2015 sono molto significativi. Il trial dimostra infatti che la combinazione bevacizumab-FOLFOXIRI migliora significativamente la sopravvivenza globale rispetto all’associazione bevacizumab-FOLFIRI con un HR pari allo 0.80 ed un vantaggio assoluto in termini di mediana di sopravvivenza di 4 mesi (da 25,8 a 29,8 mesi). “Si tratta di dati – ha commentato Alfredo Falcone, direttore del Polo Oncologico Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana e centro coordinatore dello studio – rilevanti anche dal punto di vista delle implicazioni per la pratica clinica. Bevacizumab- FOLFOXIRI rappresenta, infatti, una nuova opzione standard di trattamento che deve essere sempre considerata quando si deve trattare un paziente in buone condizioni generali che possa ben tollerare questo trattamento più intensivo.” “L’Italia – ha aggiunto Falcone – ha avuto un ruolo di primo piano. Si tratta, infatti, di uno studio unicamente italiano, frutto della collaborazione di 34 centri diffusi su tutto il territorio nazionale e rappresenta un buon esempio di squadra e per la ricerca no-profit del nostro Paese.” I nuovi dati dello studio CALGB/SWOG 80405, presentati ad ASCO 2015, hanno invece analizzato – a parità di efficacia e di sopravvivenza globale (OS) – il rapporto di costo-efficacia tra bevacizumab e cetuximab in aggiunta alla terapia chemioterapica standard di prima linea nei pazienti “wild type RAS”. L’analisi è stata condotta su circa 1.130 pazienti americani e ha esaminato i costi di tutti i cicli di terapia, valutandoli secondo alcuni parametri tra cui i costi medi dei farmaci e i costi delle terapie acute. I risultati dello studio seppur in un contesto sanitario diverso da quello italiano, hanno messo in luce come bevacizumab sia il farmaco da privilegiare in termini economico-sanitari per i pazienti con mutazione KRAS wild-type a fronte di 66 mila dollari di costi totali contro i 105 mila della combinazione con cetuximab. “I risultati dello studio CALGB mostrano come i farmaci biologici abbiano portato un miglioramento nella sopravvivenza dei pazienti che convivono con un tumore al colon-retto, con la mediana di sopravvivenza che ha superato i 31 mesi nei soggetti metastatici. Ciò significa che più della metà di questi pazienti ha vissuto più di due anni e mezzo con una malattia metastatica, un risultato che fino a pochi anni fa non era ipotizzabile. In tutto ciò bevacizumab – ha commentato Stefano Cascinu, Direttore della Clinica di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria ‘Ospedali Riuniti di Ancona’ e past president dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) – gioca un ruolo fondamentale nel trattamento di tutte le tipologie di pazienti, contribuendo al raggiungimento degli importanti risultati sulla sopravvivenza”.

TUMORI, L’80% DEI BAMBINI RIESCE A BATTERE LA MALATTIA
L’80% dei piccoli colpiti da tumore sopravvive. E le terapie sono migliorate, infatti il tasso di mortalità legato alle complicanze di salute negli anni successivi è stato abbattuto: la mortalità si è infatti praticamente dimezzata, passando dal 12,4% nei bimbi con diagnosi di cancro fatta nel 1970 al 6% di quelli con diagnosi eseguita negli anni 1990. La notizia è stata annunciata al Congresso ASCO e si basa sui dati dello studio “Childhood Cancer Survivor Study”, finanziato dal National Institute of Health, che ha analizzato le storie di 34 mila piccoli colpiti da tumore, valutando gli effetti a lungo termine delle terapie nei bambini che all’età di 5 anni hanno avuto una diagnosi di cancro tra il 1970 e il 1999, e sono sopravvissuti alla malattia. Hanno partecipato allo studio 31 ospedali canadesi e degli Stati Uniti. Più che incoraggianti i risultati: tra i bambini monitorati, tutte le cause di mortalità a 15 anni dalla diagnosi sono calate dal 12,4% al 6%. Questo importante miglioramento è dovuto in parte ai cambiamenti nelle cure che hanno ridotto il rischio di mortalità legato agli effetti tardivi delle terapie pediatriche anticancro, (come recidive e problemi cardiaci e polmonari) ma un ruolo importante è stato ricoperto dal grande sviluppo delle tecniche di screening e delle indagini diagnostiche. “Cinquanta anni fa solo 1 bimbo su 5 sopravviveva al cancro, oggi oltre l’80% è vivo a 5 anni dalla diagnosi. Tuttavia, questi sopravvissuti crescono con un rischio aumentato di mortalità per effetti tardivi delle cure come malattie cardiache ed altri tumori – ha sottolineato il primo autore dello studio Gregory Armstrong del S.Jude Children’s Research Hospital -. Oggi invece non solo un maggior numero di bambini sopravvive al tumore primario, ma siamo riusciti ad estendere le loro aspettative di vita riducendo, negli ultimi anni, la tossicità totale dei trattamenti”. Studi precedenti hanno evidenziato il decesso entro 30 anni dalla diagnosi del 18% dei bambini sopravvissuti. I bambini campione del nuovo studio sono stati seguiti per 21 anni dopo la diagnosi: 3958 (12%) sono morti durante questo periodo (soprattutto per effetti collaterali delle terapie), ma se tra questi il 12,4% con diagnosi fatta nel 1970 è deceduto entro 15 anni dalla diagnosi, solo il 6% di quelli con diagnosi eseguita nel 1990 sono morti. I piccoli sopravvissuti e che hanno avuto una diagnosi negli anni più recenti hanno inoltre un rischio statisticamente ancora più basso di morire per cause legate a successive malattie collegabili alle terapie effettuate. “Per decenni abbiamo combattuto contro il paradosso per cui i bambini sopravvivono al cancro solo per ammalarsi o morire anni dopo a causa dei trattamenti ricevuti. Ora speriamo – ha concluso l’oncologo dell’ASCO, Stephen Hunger – che il trend positivo attuale si confermi, di pari passo con il continuo ed ulteriore progresso nelle terapie”.

TUMORE DEL POLMONE: L’IMMUNOTERAPIA RADDOPPIA LE PROBABILITÀ DI SOPRAVVIVENZA
I risultati di un’analisi ad interim di uno studio globale randomizzato di fase II (POPLAR) in pazienti con tumore al polmone non a piccole cellule (NSCLC) precedentemente trattato sono stati presentati all’ASCO. Lo studio ha dimostrato che il farmaco immunoterapico in sperimentazione MPDL3280A (anti-PDL1) ha raddoppiato la probabilità di sopravvivenza (sopravvivenza complessiva [OS]; HR = 0,47) nei pazienti in cui il tumore ha espresso i livelli più elevati di PD-L1 (programmed-death-ligand-1) rispetto alla chemioterapia con docetaxel. Un miglioramento della sopravvivenza è stato osservato anche nei pazienti con livello di espressione di PD-L1 medio e alto (HR = 0,56) o qualsiasi livello di espressione di PD-L1 (HR = 0,63), come emerge da un test sviluppato da Roche. In generale, MPDL3280A è stato ben tollerato e gli eventi avversi sono stati coerenti con quanto riportato in precedenza. I dati aggiornati sono stati presentati in una sessione orale al 51° Congresso ASCO.“I risultati presentati a Chicago sono di grande importanza perché confermano come gli anti PDL-1 abbiano il potenziale per innovare il trattamento del tumore al polmone. Dallo studio POPLAR emerge infatti come il MPDL3280A abbia fatto registrare una diminuzione del tasso di mortalità del 53% nei pazienti con tumore al polmone non a piccole cellule precedentemente trattati e con un’alta espressione recettoriale PDL-1. Si tratta di dati molto promettenti che sarà importante confermare e approfondire attraverso nuove analisi – ha commentato Filippo de Marinis, Direttore Oncologia Toracica IEO, Milano e Past President dell’AIOT (Associazione Italiana Oncologia Toracica) – come ad esempio lo studio OAK, di fase III randomizzato, che stiamo portando avanti insieme al mio team e dal quale ci aspettiamo una conferma degli importanti risultati già messi in luce dallo studio POPLAR”. A febbraio 2015 MPDL3280A ha ricevuto la designazione di “Breakthrough Therapy” da parte della FDA per il trattamento dei pazienti il cui tumore al polmone non a piccole cellule esprimente PD-L1 e che hanno avuto una progressione del tumore durante o dopo i trattamenti standard (ad esempio, chemioterapia a base di platino e target therapy per il tumore positivo alle mutazioni di EGFR o ALK-positivo).

MELANOMA: LA COMBINAZIONE DI FARMACI AUMENTA LA SOPRAVVIVENZA LIBERA DA PROGRESSIONE
Presentati al 51° Congresso ASCO i dati di follow-up ottenuti da due studi su cobimetinib, un MEK-inibitore, in combinazione con vemurafenib nel trattamento del melanoma metastatico positivo alla mutazione di BRAF V600. I risultati aggiornati dello studio registrativo di fase III, coBRIM, dimostrano che la combinazione terapeutica porta la mediana di sopravvivenza libera da progressione (PFS) a 12,3 mesi rispetto ai 7,2 mesi con vemurafenib in monoterapia. “L’Italia ha avuto un ruolo fondamentale nello studio coBrim. L’Istituto Nazionale Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale è stato infatti il principale arruolatore mondiale. Si tratta di uno studio di fondamentale importanza nel trattamento del melanoma – ha commentato Paolo Ascierto, presidente della Fondazione Melanoma e direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative del ‘Pascale’ – perché dimostra come il futuro dei trattamenti stia nelle terapie di combinazione. In particolare emerge come l’associazione di vemurafenib e cobimetinib permetta di ottenere una maggiore efficacia terapeutica. Inoltre dati importanti si sono registrati anche nella diminuzione della tossicità cutanea con una conseguente riduzione drastica della percentuale dei carcinomi squamosi, una delle problematiche che permaneva nel trattamento del melanoma con la monoterapia. La nuova combinazione apre nuove prospettive terapeutiche per i pazienti con melanoma e rappresenta un’opportunità importante anche per il miglioramento della loro qualità di vita”. Lo studio coBRIM ha mostrato anche tassi di risposta più elevati con cobimetinib e vemurafenib rispetto a vemurafenib in monoterapia. Il tasso di risposta obiettiva (ORR) con la combinazione è stato del 70 per cento rispetto al 50 per cento nel braccio di vemurafenib. Inoltre, con un ulteriore follow-up, il tasso di risposta completa è aumentato dal 10 al 16 per cento con la combinazione in quanto alcuni pazienti che avevano ottenuto una risposta parziale, hanno raggiunto una risposta completa dopo più di un anno di trattamento. I dati di follow-up dello studio di fase Ib BRIM7, che prevedeva una coorte precedentemente trattata con BRAF inibitore e una coorte non precedentemente trattata con BRAF inibitore, hanno mostrato una mediana di sopravvivenza con la combinazione cobimetinib più vemurafenib di oltre 2 anni (28,5 mesi) nei pazienti non precedentemente trattati con un BRAF-inibitore. Inoltre, il follow-up prolungato ha mostrato che il 61 per cento dei pazienti, non precedentemente trattati con un BRAF inibitore, era in vita dopo due anni. La NDA (domanda di autorizzazione per la commercializzazione di un nuovo farmaco negli Stati Uniti) per cobimetinib nel melanoma avanzato positivo alla mutazione di BRAF V600 ha ottenuto la valutazione con iter prioritario (Priority Review) dalla Food and Drug Administration e una decisione è prevista entro agosto 2015. L’Agenzia europea dei medicinali dovrebbe prendere una decisione sulla domanda di autorizzazione all’immissione in commercio per cobimetinib prima della fine del 2015.

Lo speciale media ASCO 2015 è reso possibile grazie un education grant di Roche
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