domenica, 30 giugno 2024
Medinews
2 Novembre 2001

LE PRINCIPALI MALATTIE CARDIOVASCOLARI

LE MALATTIE CORONARICHE
La causa più comune di malattia coronarica è l’arteriosclerosi. Altre malattie delle coronarie sono le occlusioni dovute a varie cause, ad esempio a un trombo, le anomalie congenite, lo spasmo dell’arteria coronarica ed altre. La formazione delle placche arteriosclerotiche nella parete dei vasi produce un progressivo restringimento del loro diametro. Il che a sua volta comporta la diminuzione dell’afflusso di sangue e quindi di ossigeno al tessuto muscolare del cuore (miocardio), sino ad arrivare alla completa occlusione del vaso, accompagnata dalla necrosi (morte) del tessuto muscolare. La gradualità che caratterizza il processo di occlusione delle arterie coronariche determina una certa variabilità anche nella sintomatologia delle affezioni che ne conseguono.

L’ANGINA PECTORIS
E’ un dolore sordo di petto, descritto come una sensazione di pressione, peso, costrizione; spesso associato a sudore, capogiri, si può diramare alle spalle, alle braccia oppure solo a un braccio – spesso quello sinistro – al collo e alla mandibola. È frequente che l’angina compaia in condizioni di stress emotivo oppure fisico, proprio perché in queste condizioni il muscolo cardiaco richiede più ossigeno, che non arriva in quantità sufficiente. In questi casi si ha angina se il lume di una delle tre arterie coronariche principali è occluso per circa il 75%. In taluni soggetti – probabilmente con una ‘soglia del dolore’ più alta (maggiore produzione di endorfine) – l’occlusione non si manifesta con l’angina e il tipico dolore al petto. Questa situazione è detta ISCHEMIA SILENTE, è più facilmente riscontrabile tra le persone che già hanno sofferto di angina, ed è molto pericolosa: il dolore ischemico cardiaco ha infatti un significato ‘protettivo’ poiché con la sua comparsa segnala al paziente che e’ meglio interrompere l’attività in corso, riducendo così il lavoro del cuore che a questo punto risente meno del ridotto apporto di sangue. In assenza di dolore il paziente continua invece tranquillamente nella sua attività, senza accorgersi che il suo cuore è in una situazione di sofferenza, spingendosi così pericolosamente verso la soglia dell’infarto.

L’INFARTO DEL MIOCARDIO
Nel corso del 2000 in Italia, secondo fonte ISTAT, circa 170 mila persone nella fascia di età compresa tra 35 e 64 anni hanno avuto un attacco ischemico a carico del cuore. In pratica in Italia una persona ogni 3-4 minuti ha un infarto e i decessi, sempre secondo l’Istituto di Statistica, sono 47 mila, con un tasso di 187 morti ogni 100 mila abitanti. I due terzi dei decessi imputabili ad infarto del miocardio avvengono in fase extraospedaliera, nella maggior parte dei casi a 2 ore dell’esordio dei sintomi. Infatti i dati ufficiali di mortalità, che provengono dall’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri, sono inferiori ai dati ISTAT perché solo 75 mila persone (quindi nemmeno la metà di quelle colpite da infarto in un anno) riescono ad arrivare in ospedale. E il 13% vi giunge troppo tardi, spesso oltre le 12 ore, cioè il limite temporale oltre il quale non è più possibile attuare le terapie chirurgiche d’urgenza come la rivascolarizzazione della coronaria trombotizzata. Risulta quindi evidente che per ridurre la mortalità globale dovuta alla cardiopatia ischemica sarà opportuno sviluppare strategie sul territorio affinchè un sempre maggior numero di pazienti possa ricevere un soccorso ed un trattamento cardiologico adeguato quanto tempestivo.
Il dolore dell’infarto è della stessa natura dell’angina ma, a differenza di quella, dura più di 15 minuti (un ora e anche più), non si aggrava facendo del movimento, non si allevia stando a riposo, ne’ assumendo ‘il farmaco salvavita’ e cioè il trinitrato di glicerina – una sostanza a rapida azione vasodilatatoria. Nei casi più gravi l’infarto può complicarsi fino al collasso cardiocircolatorio e alla morte. Si ha infarto acuto del miocardio per rottura di placca arteriosclerotica e formazione di un trombo ricco di piastrine e di fibrina che porta all’immediata occlusione totale di un’arteria coronarica. Come conseguenza si ha la necrosi o morte del tessuto muscolare che era prima irrorato dall’arteria ostruita. Il trombo si scioglie spontaneamente nei giorni successivi all’infarto e questo processo è facilitato dall’assunzione di trombolitici. Dal terzo giorno successivo all’infarto comincia la rimozione del tessuto necrotico, per circa due settimane, sino a sostituire la zona infartuata con un tessuto cicatriziale che dura fra le due e le otto settimane. L’ubicazione e l’entità dell’infarto dipende dall’arteria occlusa e dalla presenza o meno di un apporto di sangue collaterale; comunque, l’occlusione di un’arteria coronarica può non indurre infarto miocardico se l’area rifornita dall’arteria in questione fruisce di un apporto collaterale adeguato da arterie adiacenti. L’espansione dell’infarto (il tessuto può assottigliarsi ed espandersi nei giorni successivi ad un infarto, specie anteriore) ha un effetto avverso sulla configurazione e sulla contrattilità del ventricolo sinistro, ed è una componente di rilievo per una successiva insufficienza cardiaca.

LE ARITMIE
Le aritmie sono alterazioni del ritmo dei battiti del cuore. Si dividono in bradicardie (o bradiaritmie) e tachicardie (o tachiaritmie).
Si ha bradicardia (rallentamento del battito cardiaco fino all’arresto) quando c’è un problema nella rete nervosa di conduzione dello stimolo elettrico lungo gli atri ed i ventricoli. Si ha tachiaritmia quando lo stimolo elettrico subisce un’alterazione per un difetto delle cellule cardiache o per azione di farmaci o di altre sostanze. In questo caso lo stimolo elettrico può originare in gruppi di cellule diverse da quelle del nodo del seno (e abbiamo l’extrasistole), oppure può non estinguersi normalmente dopo essere giunto ai ventricoli e averli fatti contrarre. Le tachicardie vengono dette sopraventricolari o ventricolari a seconda della parte del cuore in cui si localizzano. In entrambi i casi il cuore batte molto velocemente o in maniera irregolare. I sintomi sono molto diversi, a seconda del tipo di aritmia.
Vi sono aritmie ‘benigne’ che compaiono normalmente nelle persone sane a causa di stress fisici o emozionali. Inoltre molte persone anziane convivono per anni con la fibrillazione atriale. In questi casi può succedere di avvertire soltanto un’irregolarità del battito o di non avvertirla affatto (per esempio nell’extrasistole), oppure può esserci soltanto la sensazione che il cuore ‘manchi’ per un attimo o, ancora, solamente una sensazione di affaticamento (in particolare nelle bradicardie). Ma quando la frequenza del cuore si alza molto, fa la sua comparsa un quadro sintomatologico complesso con palpitazioni, vertigini, sincope, perdita di coscienza, angina, sudorazione, mancanza del respiro, poliuria. In casi molto gravi, quasi sempre associati a una patologia coronarica, si può arrivare fino all’arresto cardiaco.

L’ATEROSCLEROSI
L’aterosclerosi è la modificazione della struttura delle arterie a seguito di un accumulo di grassi, carboidrati complessi, sangue e suoi derivati, tessuto fibroso e depositi di calcio. Il processo di formazione delle placche aterosclerotiche non è stato definitivamente chiarito. Gli esperti sono oggi abbastanza concordi nel ritenere l’aterosclerosi una conseguenza a lungo termine di un’infiammazione cronica delle arterie maggiori, che si avvia a partire da una lesione iniziale, funzionale o fisica, dell’endotelio, cioè dello strato più interno della parete arteriosa. Questa lesione innescherebbe la reazione immunitaria di un tipo di globuli bianchi, i monociti, i quali aderirebbero alle cellule endoteliali lesionate; il processo sarebbe accelerato dalla presenza di agenti ossidanti, prodotti dell’elaborazione di sostanze esogene – ad esempio contenute nel fumo di tabacco o negli alimenti – e di altri fattori come le citochine. Queste sostanze favorirebbero l’ossidazione del colesterolo (LDL) e l’interazione di questo, di altri lipidi e di alcuni fattori caratteristici della coagulazione quali le piastrine e la fibrina (essenziali anche nelle complicanze trombotiche) con l’endotelio, sino alla loro inclusione nel tessuto e formazione delle placche aterosclerotiche che portano al restringimento (stenosi) o all’occlusione completa delle arterie. La lesione ateromatosa, tanto più se complicata, comporta una diminuita elasticità e una restrizione del lume vasale e quindi una diminuzione dell’afflusso di sangue ai tessuti. Le conseguenze dell’aterosclerosi sono quindi riconducibili a uno stato di ischemia, talvolta acuta, talora cronica e progressiva, di vari organi o tessuti.

LO SCOMPENSO CARDIACO
Si può definire come l’incapacità del miocardio ad assicurare una portata cardiaca adeguata alle necessità dell’organismo, con conseguente diminuzione dell’apporto di sangue ai tessuti e ristagno venoso nel circolo polmonare e sistemico.
Nonostante i progressi della terapia o forse, paradossalmente, grazie a questi, lo scompenso cardiaco è in costante aumento in tutti i paesi industrializzati. Tanto che negli ultimi anni è diventato un problema sanitario di enorme importanza. Lo scompenso non rappresenta infatti una singola malattia, ma il risultato finale di una serie di malattie cardiovascolari. Come si diceva, la sua crescita epidemiologica è dovuta anche ai buoni risultati della medicina che è riuscita a prolungare la sopravvivenza (senza necessariamente eliminare la malattia) di pazienti affetti da svariate malattie cardiovascolari (post infarto, ipertensione arteriosa, etc) destinati altrimenti a morire.
L’incidenza della malattia e la mortalità sono in continua crescita soprattutto nella popolazione anziana. In Europa sono oltre 5 milioni le persone affette da questa patologia. Ogni anno si registrano da 3 a 20 nuovi casi ogni 1.000 abitanti. In Italia questa condizione affligge circa 600.000 persone, con una prevalenza di circa 3-20 casi ogni 1.000 abitanti. Sempre in Italia lo scompenso cardiaco cresce con un ritmo di 87.000 nuovi casi all’anno, pari a un’incidenza di 0,1-0,2% / anno. Questo valore diventa ancor più impressionante nella popolazione di età superiore a 65 anni, dove la malattia colpisce da 30 a 130 persone su 1.000.
Un aspetto particolarmente negativo, sia per il paziente sia per i costi a carico della società, è l’elevata frequenza di ospedalizzazione e riospedalizzazione. In Italia un paziente su quattro fra quelli visitati una prima volta negli ambulatori dedicati allo scompenso delle varie divisioni di Cardiologia viene ospedalizzato o riospedalizzato entro un anno. Questa cifra sale al 40% se si considerano i pazienti che hanno uno scompenso medio –grave (Classe III o IV).
TORNA INDIETRO