domenica, 30 giugno 2024
Medinews
19 Febbraio 2001

03 SINTESI DELL’INTERVENTO DEL DOTT. STEFANO VELLA

Per questo si sta valutando sia l’ipotesi di non colpire immediatamente il virus con interventi massicci, sia di sperimentare approcci terapeutici diversi, come la cosiddetta intermittenza o vacanza dalla terapia. Un fenomeno sperimentato in modo empirico e pericoloso dagli stessi pazienti – che molto semplicemente si stufano di prendere i farmaci e smettono – e che noi stiamo cercando di capire se è una strada scientificamente percorribile.
Attualmente stiamo sperimentando tre diverse modalità: la prima consiste nell’interrompere la terapia in quei pazienti che presentano ceppi resistenti a tutti gli antivirali. La speranza è che così facendo spariscano dal sangue le resistenze e riemerga il ceppo selvaggio, cioè quello originario, in modo da ottenere una nuova risposta alla terapia. Fino a poco tempo fa questa teoria sembrava buona: gli ultimi dati ci dicono invece che non è così, che il beneficio è solo temporaneo. Di fatto i virus non li troviamo più non perché sono scomparsi, ma perché sono andati ad annidarsi in qualche santuario. Studi in questo senso sono comunque ancora in corso: personalmente credo però che sia un capitolo chiuso.
L’altra modalità riguarda i pazienti già completamente soppressi dal punto di vista della replicazione, cioè quelli che rispondono alla terapia. In questo caso l’intermittenza viene fatta per ristimolare il sistema immunitario ad agire da solo. Un lavoro pubblicato recentemente su Nature ha mostrato che l’idea funziona, perlomeno durante l’infezione acuta: si smette la terapia e poi si somministrano ai pazienti dei piccoli flash di virus autologo, come se fossero delle vaccinazioni.
Il terzo modello prevede l’intermittenza nei pazienti che hanno un’infezione cronica e sono in terapia antiretrovirale. L’obiettivo è di rendere la terapia più accettabile, in funzione di un miglioramento della loro qualità della vita.
Oggi le terapie funzionano, ma hanno il difetto di essere troppo pesanti: dopo un po’ i pazienti non ce la fanno più. Dopo 2-3 anni di inibitori della proteasi hanno la lipodistrofia, le altre classi non nucleosidiche sono fragili, per cui è possibile sviluppare resistenze con una certa facilità. E visto che adesso pensiamo di trattare i pazienti per decenni, c’è il rischio che uno non ce la faccia. Allora si è pensato: potremmo risparmiare farmaco trattando pazienti soltanto per dei cicli. Uno fa un ciclo di terapia, fino a quando arriva a 500 CD4, quindi smette e aspetta che scendano per poi ricominciare. Alcuni dati sembrerebbero confortarci, nel senso che se si interrompe la terapia non si sviluppano resistenze. Intendiamoci, qui non si tratta di svuotare i serbatoi dal virus, perché non è possibile, ma di un discorso di qualità di vita. Sicuramente i pazienti non avranno un aumento sensibile di CD4, sicuramente il virus continuerà a fargli un po’ male però nel frattempo faranno delle belle vacanze. Certo se avessimo dei farmaci perfetti forse non avremmo di questi problemi. Pensate però cosa significherebbe per i Paesi in via di sviluppo se questa strategia funzionasse.
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