domenica, 30 giugno 2024
Medinews
19 Febbraio 2002

COMUNICATO STAMPA

Quinta edizione del Congresso nazionale Ombre e Luci dell’Anlaids Lombardia

Milano, 22 febbraio 2002 – “Fino a pochi anni fa l’HIV poteva essere paragonato ad una lepre che correva velocemente incontro all’AIDS e alla morte, mentre il virus dell’epatite C era la tartaruga. Ora che siamo riusciti a rallentare quella folle corsa, la tartaruga non solo ha raggiunto la lepre ma l’ha anche superata”. L’immagine, che rispecchia e riassume con efficacia uno dei problemi più gravi e urgenti per le persone sieropositive, è del prof. Giampiero Carosi, intervenuto oggi alla quinta edizione del Congresso ‘Ombre e Luci’, organizzato all’Hotel Michelangelo di Milano dall’Anlaids Lombardia. “L’arrivo nel ’96 degli inibitori della proteasi e, successivamente, di altri farmaci antiretrovirale (attualmente ne abbiamo a disposizione una quindicina, distribuiti in tre classi) – ha spiegato il direttore della Clinica di Malattie Infettive e Tropicali dell’Università di Brescia – ha radicalmente modificato la storia naturale dell’HIV. Sono ormai in pochi infatti i pazienti HIV+ che si ammalano di AIDS, e anche chi è meno fortunato vive più a lungo”.
La quasi cronicizzazione della malattie e l’allungamento della vita ha però portato sul tappeto altre problematiche. “L’altra faccia della medaglia – ha avvertito Carosi – è rappresentata dalla coinfezione con i virus dell’epatite, la B ma soprattutto la C. L’epatite cronica impiega 20-30 anni per evolvere in cirrosi, dopodiché ci vogliono ancora parecchi anni prima di arrivare all’insufficienza epatica o al cancro del fegato”. Le persone che vanno incontro a coinfezione sono complessivamente tra il 60 e il 70%. Per la maggior parte sono tossicodipendenti (90%), che hanno contratto il virus scambiandosi siringhe. Attualmente in Italia vivono circa 110.000 persone sieropositive, con un incremento di 3500 nuove diagnosi all’anno, poco meno di 10 al giorno.
“Le problematiche che andiamo a toccare – ha rimarcato Rosaria Iardino, rappresentante delle persone sieropositive nella Commissione Nazionale AIDS – stanno diventando più importanti dell’HIV: oggi le persone sieropositive muoiono più a causa dell’epatite C che per AIDS. Per questo è fondamentale che i clinici, i ricercatori, ma anche le Associazioni dei pazienti inizino a prendere atto della situazione e ad affrontarla. I pazienti hanno bisogno di risposte”.
Quello a cui si sta assistendo è un tragico paradosso: in molti pazienti le cure disponibili consentono di controllare bene il virus dell’AIDS, ma non ancora sufficientemente quello dell’epatite C. “Anche se, a differenza di pochi anni fa – ha affermato il prof. Mauro Moroni, direttore dell’Istituto di Malattie Infettive e Tropicali dell’Università di Milano e presidente dell’ANLAIDS sezione Lombarda – grazie all’impiego di particolari preparazioni farmacologiche, gli interferoni in monoterapia e soprattutto in associazione con la Ribavirina per l’epatite C e la Lamivudina per l’epatite B, la percentuale di efficacia delle terapie contro le epatiti croniche è arrivata al 40%”. Nel corso del 2001 è stato inoltre immesso sul mercato un nuovo preparato, chiamato Interferone Pegilato, che ha mostrato un’efficacia superiore al tradizionale ed ha l’ulteriore vantaggio di un’unica somministrazione settimanale, rispetto alle tre consuete. “Il discrimine del successo della terapia – secondo Carosi – è però che il paziente stia bene, almeno a livello immunologico, vale a dire che abbia un numero di linfociti CD4 superiore ai 350”. In caso di coinfezione con il virus dell’epatite C (per la B esiste il vaccino) l’intervento del clinico è particolarmente complesso. “Se un paziente arriva all’osservazione con un alto numero di linfociti CD4 e non è stato ancora messo in trattamento per l’HIV – ha detto Carosi – il primo passo è di curare l’epatite. Generalmente però il paziente si presenta quando ormai l’HIV è a uno stadio già avanzato. In questo caso bisogna prima riportare i linfociti CD4 ad un numero sufficiente e quindi cercare di risolvere l’epatite. Certo questa seconda possibilità è la più complessa. La terapia con Interferone e Ribavirina provoca non pochi effetti collaterali. Somministrarla ad un sieropositivo significa associarla alla terapia retrovirale già di per sé molto pesante”.
E per il 50-60% dei pazienti con coinfezione e che non rispondono al trattamento, che si può fare? “Oggi – ha spiegato ancora il prof. Carosi – si stanno studiando farmaci antivirali specifici. Per l’epatite B saranno a disposizione l’anno prossimo o al massimo nel 2004. Per l’epatite C, invece, siamo ancora un po’ lontani”.
L’altra possibilità è il trapianto di fegato: tema questo alquanto spinoso, che ha sollevato non poche polemiche proprio per la condizione di sieropositività del ricevente. “L’argomento – hanno illustrato Moroni e Iardino – è ben presente nella comunità scientifica e se n’è discusso anche in Commissione Nazionale Aids: l’obiettivo è quello di far cadere ogni pregiudiziale di massima nei confronti del trapianto ai sieropositivi e affrontare il problema in termini scientifici, avendo cioè chiari i vantaggi, i rischi, le indicazioni. Ma se si rivela una possibilità clinicamente vantaggiosa è una strada da percorrere”.
Per quanto riguarda il vaccino, allo stato attuale è in produzione. “Al termine di questa fase – spiega la dr.ssa Barbara Ensoli, direttore dell’equipe del Laboratorio di Virologia dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che sta portando avanti lo studio – verrà richiesta al Ministero della Salute l’autorizzazione per la somministrazione all’uomo. La sperimentazione sarà quindi realizzata sia in Italia che in Africa per verificare l’immunogenicità (fase II) e l’efficacia (fase III) di tale approccio vaccinale. Il completamento di questi studi e l’analisi dei dati richiederà un periodo di tempo non inferiore ai 7 anni”.
“Ma sul vaccino – ha precisato Moroni – è necessario fare un po’ di chiarezza, per evitare che nascano troppe aspettative. In senso classico il vaccino viene somministrato per scongiurare un’infezione: così funziona il vaccino antitetanico, quello antidifterico e l’antipoliomielitico. E anche per l’HIV ci si sta adoperando per la messa a punto di un vaccino preventivo da utilizzare nelle persone esposte al rischio ma non ancora infette. Purtroppo siamo ancora lontani da questo traguardo: si valuta infatti in decenni la possibilità di arrivare ad una vaccinazione di massa. Il vaccino a cui sta lavorando l’equipe dell’Istituto Superiore di Sanità rientra nell’ambito dell’immunoterapia attiva, cioè di presidi in grado di stimolare il sistema immunitario in modo specifico contro HIV, al fine di potenziare i farmaci antiretrovirale che già vengono utilizzati. Nell’ipotesi più ottimistica, la sinergia tra farmaci antiretrovirale e vaccini potrebbe un domani portare anche all’eradicazione dell’infezione: un obiettivo ambizioso, non di per sé impossibile, ma sicuramente lontano. Più vicina e realistica è invece la possibilità di potenziare le attuali terapie antiretrovirale”.
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