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16 Marzo 2002

EPATITE C: ALLARME A TORINO, MA E’ PRONTA LA SOLUZIONE TERAPEUTICA

Le novità dal seminario nazionale in corso nel capoluogo piemontese

Torino, 16 marzo 2002 – Ora che l’Aids non è più una condanna definitiva, l’infezione si cronicizza e i pazienti vivono molto più a lungo, le cause di decesso più frequenti nei sieropositivi sono le complicanze dovute all’evoluzione dell’infezione da virus dell’epatite C. Secondo una ricerca durata due anni e presentata oggi al convegno “Controversie nel trattamento dell’epatite C cronica” da Mario Rizzetto, professore di Gastroenterologia all’Università di Torino, la metà delle 3.000 persone con infezione da HIV è colpita anche dall’epatite C, che ne causa la morte. La ricerca, condotta presso il Dipartimento clinico di malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia (TO), pone Torino al sesto posto in Europa per ampiezza della popolazione analizzata, e rileva una media di persone colpite da entrambi i virus ben al di sopra di quella nazionale. In Italia, infatti, il 33% dei sieropositivi, circa 100 mila persone, e l’80-90% dei tossicodipendenti, circa 300 mila, hanno il virus C. Il nostro Paese condivide queste cifre da primato europeo con la Francia meridionale e la Spagna.

Secondo gli esperti l’HCV uccide ormai più dell’HIV perchè l’interazione tra i 2 virus determina una più veloce evoluzione in cirrosi. Per fortuna la soluzione oggi c’è e si chiama interferone peghilato, una molecola ottenuta dal miglioramento farmacologico dell’interferone tradizionale che, in associazione con un antivirale come la ribavirina e tarando le dosi e la durata della terapia sul peso corporeo dei pazienti, elimina il virus C nel 60% dei casi. Secondo il prof. Rizzetto il nuovo trattamento di combinazione, oltre che i sieropositivi con un potenziale immunitario non del tutto compromesso, può guarire definitivamente anche altri gruppi di persone: ad esempio chi si è sottoposto a trasfusioni o grandi operazioni chirurgiche prima del ‘90 (la scoperta dell’HCV è dell’89) o chi ha comportamenti sessuali a rischio. “Queste persone – consiglia Rizzetto – farebbero bene a sottoporsi a un semplice esame del sangue per valutare il livello delle transaminasi. E’ questo l’unico modo per evidenziare la malattia in tempi precoci nei quali la cura ha più successo”.

Il nuovo interferone peghilato si somministra una sola volta per settimana (contro le 3 del tradizionale). “Si tratta di una molecola a lento rilascio – ha spiegato il prof. Giovanni Di Perri direttore della clinica malattie infettive dell’Amadeo di Savoia – che garantisce per un tempo prolungato un livello efficace di interferone”.
La maggiore efficacia della nuova associazione interferone peghilato-ribavirina in termini di risposte positive amplia considerevolmente le prospettive nel trattamento dell’epatite C, non solo per i gruppi a rischio. Spiega il prof. Mario Rizzetto “Ciò che sta emergendo dagli studi iniziati a Torino meno di un anno fa con i nuovi farmaci e in particolare con l’interferone peghilato, è l’estensione dell’indicazione della terapia a gruppi di persone che prima non erano trattate: infatti se la terapia dimostra di bloccare il virus anche nell’80% dei casi, si tende a somministrarla anche ad anziani, pazienti con malattie concomitanti, emofilici; nei cirrotici siamo arrivati al 30% di successi, mentre prima dell’introduzione del peghilato per questi pazienti non esisteva alternativa al trapianto. La nuova terapia va tarata sul tipo di paziente e sul suo peso, tenendo presente che più la malattia è evoluta e cioè maggiore è il danno al fegato (fibrosi), più la risposta si abbassa; perciò quanto prima si inizia la cura tanto più è probabile che si guarisca”.
Il virus HCV responsabile dell’epatite C causa circa il 20% di tutte le epatiti acute, il 70% delle epatiti croniche e il 20-30% dei casi di cirrosi epatica e di epatocarcinoma, complicanze che ogni anno, solo in Italia, sono responsabili della morte di quasi 30.000 persone. La prevalenza nella popolazione generale del nord Italia è intorno al 3%, mentre nel sud siamo intorno al 12%. “Il Piemonte, specialmente l’area di Torino, ha ospitato nel corso degli anni un largo flusso migratorio dal sud. Per questo – conclude Rizzetto – la nostra casistica è estremamente composita”. L’HCV è un virus subdolo che rimane silente per decenni, senza dare alcun disturbo. Per questo motivo è difficile – e casuale – scoprire la malattia nei portatori sani, che in Italia sono più di 2 milioni. Allo stato attuale, inoltre, dal punto di vista sanitario non si può stabilire un programma di screening allargato a tutta la popolazione, perché, al contrario dell’epatite B, non è stato ancora trovato un vaccino capace di debellare il virus C. Secondo gli epatologi riuniti a Torino presso il Centro Congressi di via Fanti, 17, la scommessa è quella di ottimizzare la nuova terapia per i pazienti già trattati in precedenza e che non rispondevano al vecchio interferone.

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