01 “TUMORI, NON CURARE GLI ANZIANI E’ RAZZISTA PIU’ SOLDI PER LA RICERCA A FAVORE DI QUESTI MALATI”
Delle 270.000 persone che ogni anno si trovano a fare i conti con il cancro, la metà ha più di 65 anni e di questi il 45% ha superato i 70. Ma nei paesi industrializzati la fascia di popolazione di età superiore ai 65 anni è in crescita esponenziale. I dati epidemiologici indicano che nel 2035 il 40% della popolazione sarà ultrasessantacinquenne e 20 anni più tardi il numero delle persone anziane sarà due volte e mezzo quello dei bambini. Tra i 40 e gli 80 anni, poi, la possibilità di ammalarsi di tumore aumenta di 1.000 volte. Uomini e donne con più di 65 anni hanno un rischio 15 volte più elevato di sviluppare una neoplasia rispetto alla popolazione al di sotto di questa età. “Ma oggi una persona di 65 anni in buone condizioni di salute – sostiene Di Costanzo – ha un’aspettativa di vita di 20 anni, con una mediana di 18.5. Se invece ha una malattia la sua spettanza di vita scende a 9.7 anni. Una persona di 75 anni “sana” ha un’aspettativa di vita di altri 12 anni: in presenza di malattie collaterali l’aspettativa scende a 7. Un 85enne in buone condizioni può vivere altri 6 anni, 4.5 in presenza di malattia. Tutto questo deve essere tenuto in grande considerazione, perché non trattare un paziente di 70 anni significa ridurgli arbitrariamente le possibilità che avrebbe di proiezione di vita”.
Malgrado questi numeri, almeno in Europa, sono ancora troppo pochi gli studi clinici in cui vengono arruolati pazienti anziani e, oltre all’immotivato fatalismo ci cui si faceva cenno, permane nella pratica quotidiana un empirismo nelle cure, quando non addirittura un’esclusione.
“In realtà – sostiene Roberto Labianca, responsabile dell’oncologia degli ospedali Riuniti di Bergamo e presidente eletto dell’Aiom – le neoplasie dell’anziano non presentano un andamento meno aggressivo e anzi, in molti casi, i trattamenti oncologici possono migliorare la durata e la qualità di vita. Se non curato adeguatamente, il cancro negli anziani è infatti una malattia con elevata mortalità, certamente non inferiore al giovane. Nei tumori del polmone, per esempio, la sopravvivenza mediana è identica sopra e sotto i 70 anni. Lo stesso si può dire per i tumori del colon retto, dello stomaco e per i sarcomi. Per quanto riguarda il tumore della tiroide, la prognosi è addirittura più veloce”.
“Quando ad ammalarsi è un giovane – sottolinea Monfardini – la nostra priorità è di curare la neoplasia con tutte le armi disponibili. Nell’anziano il discorso è più complicato: è infatti molto probabile che chi ha 65-70 anni soffra anche di altre malattie – miocardiopatie, broncopatia cronica ostruttiva, diminuzione della funzionalità renale, artrosi, ipertrofia prostatica – che finiscono per limitare enormemente la nostra possibilità d’azione (diversi chemioterapici sono per esempio tossici per il cuore). A queste si aggiunge spesso la depressione che, secondo alcune stime, già prima della diagnosi colpirebbe un anziano su 5. Con questa anamnesi – prosegue Monfardini – pretendere di intervenire solo sul tumore sarebbe quindi uno sbaglio. Non è cioè possibile che il paziente venga seguito da un’unica divisione di oncologia medica o da un istituto unicamente oncologico senza il supporto di branche importanti della medicina interna come la cardiologia, la nefrologia, la pneumologia e la diabetologia”.
Negli USA vale il concetto della non discriminazione: tutti devono avere pari opportunità. Se c’è anche solo una possibilità di guarigione o di miglioramento della qualità di vita, il trattamento deve essere fatto. Dati emersi dallo studio ‘Eurocare’ hanno dimostrato che la maggior sopravvivenza per alcune patologie riscontrata negli Stati Uniti rispetto all’Europa non era da attribuire ad un miglior trattamento, ma soltanto al fatto che le persone lì vengono curate.