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Medinews
18 Marzo 2002

05 NOI CURIAMO L’UOMO, NON LA MALATTIA

Intervista con Silvio Monfardini, direttore della Divisione di Oncologia Medica dell’Azienda-Ospedale di Padova

Ma il peso della sua vita è tanto, le cose da fare sono tante; e quel vecchio padre a cui lei è così affezionata che ciondola per casa, e non vuole dar retta, mai. Peraltro, non ha mai dato retta nella sua vita, figurarsi se a quell’età ne dà ad una donna, oltretutto a sua figlia. Ma questa volta, almeno al medico padovano dovrà ubbidire. Cosa ci faccio qua, pensa il vecchio. La sua vita è già stata così lunga, faticosa. Chi ne ha voglia di passare attraverso quelle stanze così tristi così grigie, lui preferisce starsene a morire in pace a casa sua, pensa di avere già vissuto abbastanza e non ha voglia, non ha voglia di avere a che fare con i medici che parlano strano, di avere a che fare con le medicine che poi gli fanno male, vuole tornarsene a casa a morire in pace. Si chiede: che bisogno c’era per quella tossaccia di venire fino a Padova? Cosa potranno mai fare i medici per me?
Gli risponde Silvio Monfardini, direttore della divisione di oncologia medica dell’azienda ospedale di Padova e presidente eletto dell’ International Society for Geriatric Oncology.
“Innanzitutto i medici devono capire chi è l’uomo che si trovano davanti, che vita ha fatto, in che condizioni generali è, e che voglia ha di affrontare questa nuova situazione. Bisogna avvicinarsi a lui con una certa pazienza, con un certo tempo e, quindi un colloquio non basta. Scordiamoci di poter vedere il paziente per la prima volta e di cominciare a poterlo trattare, una volta completati gli accertamenti diagnostici, nel giro di qualche giorno”.


Che cosa vuol dire “bisogna rendersi conto di chi si ha davanti”?
Sappiamo che in un anziano il tumore è nella gran parte dei casi accompagnato da diverse malattie: miocardiopatie, broncopatia cronica ostruttiva, diminuzione della funzionalità renale, artrosi, ipertrofia prostatica; e poi un certo grado di depressione (che è più frequente nelle donne che non negli uomini) e, a volte, un certo grado di deterioramento neurologico, di diminuita capacità di muoversi e di badare a se stesso.

Dunque avete davanti un malato a 360°, non una malattia?
Noi abbiamo di fronte il tumore ed il paziente di cui dobbiamo capire ogni cosa, anche gli aspetti psicologici.

Ma oltre a comprenderlo, siete in grado di guarirlo? Quanti sono quelli che ce la possono fare a questa età?
Ce la possono fare i pazienti che devono essere sottoposti ad una chemioterapia precauzionale come ad esempio dopo l’intervento chirurgico, in un carcinoma del colon o in un carcinoma della mammella, oppure pazienti affetti da malattie particolarmente chemiosensibili questo è il caso dei linfomi Non-Hodgkin e più raramente del linfoma di Hodgkin.

Quindi non è vero che un paziente anziano non può guarire dal tumore?
Non è assolutamente vero. E lo abbiamo detto anche in un addendo al Codice Europeo Contro il Cancro: un anziano ha le medesime chance di un paziente adulto. Non si può condannare precocemente una persona, tenendo conto che la spettanza di vita, ad esempio, di una donna a 70 anni è di 14 anni e di un uomo di 70 anni è di altri 8 anni. Questi sono anni di vita potenziali che noi dobbiamo cercare di guadagnare a dispetto del tumore. Garantendo anche una qualità di vita adeguata.

Come si curano questi pazienti in età avanzata? Che terapie ci sono a loro disposizione?
Per quanto riguarda la chirurgia e la radioterapia non esistono essenzialmente limiti legati all’età. Per quanto riguarda la chemioterapia, invece, bisogna cambiare l’approccio terapeutico. Se, ad esempio, un paziente ha settanta anni o più e ha un tumore del polmone non operabile, va trattato con una chemioterapia meno aggressiva di quella che useremmo in un quarantenne, ricorrendo per lo più alla monochemioterapia anziché alla chemioterapia di combinazione, proprio per provocare una minore tossicità. Dobbiamo orientarci a considerare un approccio di chemioterapia personalizzata per questo genere di malati.

Cosa vuol dire “personalizzato”?
Vuol dire che nel definire la terapia bisogna considerare tutta una serie di limitazioni che possono impedirci di usare un farmaco potenzialmente cardiotossico perché il paziente è cardiopatico, che possono richiedere una riduzione del dosaggio di alcuni farmaci o del loro numero perché possono indurre un calo dei globuli bianchi con una facilità alle infezioni, o semplicemente perché una donna anziana non vuole che le cadano i capelli. Per quanto possa sembrare paradossale, l’alopecia è pochissimo accettata dalle pazienti anziane mentre invece è molto più tollerata dalle donne giovani.

L’oncologia medica è, per definizione, la scienza dei protocolli che portano al successo della miglior terapia disponibile. Nel trattamento degli anziani cambiano i parametri?
Certamente l’oncologia medica è stata sempre la branca della medicina interna che è avanzata attraverso i protocolli di ricerca. Attualmente nel trattare gli anziani noi procediamo empiricamente poiché i protocolli sono ancora in fase di elaborazione, ma esisteranno in futuro adattandosi in particolare alle esigenze di questi malati. Stiamo lavorando a protocolli che dovranno essere molto più plastici e molto più duttili, proprio per adattarsi alle peculiarità dell’anziano.

Ad esempio?
Per il trattamento dei linfomi Non-Hodgkin sono stati messi a punto degli schemi modificando la chemioterapia standard dell’adulto (la cosiddetta Chop). In aggiunta alla Chop è stato impiegato un anticorpo monoclonale (Mabthera) che ha permesso di aumentare le risposte complete e la sopravvivenza. I risultati di questi studi sono stati pubblicati di recente sul “New England Journal of Medicine”. Altro esempio: nel carcinoma della mammella della donna adulta in fase avanzata, la chemioterapia combinata è la modalità accettata e standard, nell’anziana l’approccio migliore è quello di somministrare un farmaco dopo l’altro: somministrare un farmaco, vedere se funziona e poi passare ad un altro farmaco. Questo offre il vantaggio di una minore tossicità.

Esistono studi clinici specifici per tumori dell’anziano?
In Europa c’è senz’altro una discriminazione e sono ben pochi gli studi clinici specifici fatti su pazienti anziani. Presso la nostra divisione di oncologia medica abbiamo protocolli di sperimentazione in cui entrano pazienti in età avanzata ammalati di tumore al polmone, alla mammella e di linfomi non Hodgkin. Questi protocolli prevedono che al cancro possano essere associate altre condizioni morbose, che però non devono essere particolarmente gravi. In presenza di un grave scompenso cardiaco, di una grave insufficienza respiratoria non possiamo fare entrare i pazienti in questi protocolli. Sono persone fragili e li trattiamo con una chemioterapia il più possibile individualizzata, in genere con un farmaco a dosi ridotte.

Dunque, si deve sempre prevedere una valutazione individuale?
Si, la valutazione individuale è fondamentale per vedere se l’anziano, avendo condizioni di accompagnamento morbose, è in grado di entrare nel protocollo. Quando queste condizioni sono particolarmente gravi allora non è inseribile nel protocollo. Non solo: come si fa a trattare un paziente con chemioterapia senza sapere se è in grado di muoversi, di usare i mezzi di trasporto per raggiungere il centro dove viene somministrata la chemioterapia antitumorale e senza sapere se è in grado di parlare al telefono con l’infermiera o con il medico in caso di necessità? In un lavoro apparso sul Journal of Clinical Oncology di gennaio su oltre 360 pazienti anziani con tumore abbiamo proprio valutato questi aspetti. E abbiamo concluso che per questo tipo di malati è necessario premettere alla terapia una valutazione complessiva che abbiamo chiamato “Valutazione geriatrica complessiva” capaci di darci gli elementi su cui disegnare la terapia.

Insomma quel proiettile magico che Paul Erlich cercava, cominciando, negli anni ’50, la grande avventura della moderna farmacologia a caccia della molecola miracolosa capace di far fuori la malattia, e che gli oncologi medici hanno trovato aumentando in maniera straordinaria le probabilità di sopravvivenza dei pazienti con le più svariate tipologie di cancro, sembra non essere più né tanto proiettile né tanto magico. Il nuovo scenario demografico vede ribaltata la popolazione di malati che giungono negli ospedali: un esercito di creature fragili, psicologicamente, e socialmente, che chiedono un aiuto, per loro quel proiettile magico, il farmaco, non può essere la soluzione standard. Questa rivoluzione demografica impone all’oncologia medica una rivoluzione strutturale, una rivoluzione copernicana capace di ribaltare la mentalità di medici e pazienti riportando al centro l’uomo.
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