Rapporto annuale dello studio Icona che fotografa l’evoluzione della malattia in Italia
Quarantenne, colto, con un lavoro fisso: questo il nuovo identikit di chi vive con il virus
Cambia a tal punto l’identikit del nuovo sieropositivo, che anche l’età media dei pazienti è in aumento: l’83% degli uomini e il 69% delle donne ha dai 30 ad oltre 50 anni: gli ultraquarantenni in particolare sono il 29% degli uomini e il 16,5% delle donne. Hanno invece più di 50 anni l’8% degli uomini e il 24% delle donne.
Il 66%, inoltre, ha un’occupazione: il 45% è lavoratore dipendente, il 16,1 ha un lavoro autonomo, il 4,9 saltuario, mentre solo il 23,7% è disoccupato. Pochi gli studenti, l’1,3%. I più rappresentanti sono gli operai (il 40,9%), ma ci sono anche impiegati (30,2%), artigiani (19,4%) e dirigenti (5,4%). Interessante anche il dato sulla scolarità: il 37,4% ha un diploma di media superiore e il 5,1% di questi è arrivato alla laurea: solo il 13,6% ha la licenza elementare.
Il problema del sommerso, a cui si faceva cenno prima, viene ulteriormente aggravato quando anche in presenza di una diagnosi certa, il paziente decide ugualmente di ritardare la terapia. “Un’indagine condotta su 694 pazienti arruolati in ICONA – afferma Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma – il tempo medio che intercorreva tra il primo test per HIV positivo e la prima visita in un centro specialistico era di circa 6 anni ed in questo periodo queste persone, oltre ovviamente a non fare alcuna terapia specifica, non avevano mai eseguito esami di laboratorio, quali la conta dei linfociti CD4 o la viremia HIV, indispensabili per una valutazione dell’infezione. 101 pazienti, circa il 40% di coloro che sapevano di essere positivi per HIV ma avevano ritardato la presentazione ad un centro clinico, avevano fatto la prima visita quando l’infezione era in uno stadio avanzato, avevano cioè un’immunodeficienza grave o già manifestazioni di AIDS conclamato”.
Uno dei maggiori problemi per i pazienti sieropositivi italiani è attualmente l’aderenza alla terapia. I farmaci antiretrovirali raggiungono e mantengono concentrazioni in grado di inibire la replicazione del virus solo se vengono presi alle dosi e secondo le modalità prescritte. Studi recenti hanno dimostrato che un’assunzione inferiore al 95% della dose prescritta si traduce in un incremento del 30% della probabilità di fallimento terapeutico. Assunzioni incomplete o irregolari comportano concentrazioni inadeguate dei farmaci, che permettono al virus di continuare a replicarsi. L’aver dimenticato anche soltanto una dose nell’arco di tre giorni comporta una riduzione del 50% della probabilità di ottenere un pieno successo della terapia, bloccando la replicazione del virus. Nell’ambito di ICONA è stato quindi promosso un ulteriore studio per valutare l’effettiva aderenza alle prescrizioni e i motivi per cui non viene rispettata. Cosa è emerso? Che tre pazienti su dieci non reggono e abbandonano la cura. Tra le motivazioni principali, c’è prima di tutto il timore di avere in futuro effetti collaterali (il 41%), ma anche di essere visti dagli altri (il 35%) o di aver avuto problemi fisici (il 24%), in particolare astenia (16%), insonnia e ansia (12%) e difficoltà sessuali (8%).