domenica, 30 giugno 2024
Medinews
22 Ottobre 2002

11 SINTESI DELL’INTERVENTO DEL DR. GIANNI LEARDINI

In condizioni normali la cartilagine è costituita da un tessuto duro-elastico, con una su-perficie liscia che garantisce il perfetto scorrimento dei capi articolari ed, allo stesso tempo, è in grado di ammortizzare i piccoli traumatismi cui è sottoposta un’articolazione in movimento.
In corso di artrosi elasticità e capacità ammortizzante vengono perdute, la superficie si fissura e il tessuto cartilagineo si erode fino ad essere largamente riassorbito: ciò deter-mina, nelle forme più avanzate della malattia, l’esposizione delle ossa sottostanti che possono anche venire a reciproco contatto impedendo il movimento dell’articolazione.
Alla luce delle moderne conoscenze, questi fenomeni non possono più essere considera-ti come la semplice risultante di una “normale” usura di un tessuto che si accompagna all’invecchiamento.
Oggi l’artrosi è riconosciuta come una vera malattia, della quale sono noti molti dei meccanismi con cui si istaurano quelle lesioni che certamente non sono un fenomeno fisiologico di aging, così come si sono identificate note molte delle cause che innescano il processo patologico.
Tra queste alcune, come i fattori genetici, non sono ancora modificabili, ma su altre è possibile intervenire attuando una profilassi che deve sempre essere considerata un momento importante della cura dell’artrosi.
Su queste basi si fonda l’opinione condivisa che la terapia della malattia non si possa limitare al controllo del sintomo dolore, ma debba mirare, laddove possibile, a prevenire la comparsa del danno strutturale o, quantomeno, a limitarne l’evoluzione.
Oggi si può asserire, sulla base di evidenze scientifiche, che questo obiettivo è finalmente raggiungibile utilizzando farmaci come la Glucosamina solfato, che, somministrata per os alla dose di 1500 mg al dì per 3 anni, ha dimostrato di essere in grado di limitare la progressione del danno artrosico.
A fianco della terapia medica molto può essere anche fatto dallo malato in prima perso-na: egli, infatti, mette in pratica una profilassi primaria, antecedente la comparsa delle manifestazioni della malattia, quando controlli fattori di rischio quale il sovrappeso e l’inattività motoria o eviti l’esposizione a traumatismi articolari conseguenti ad eccessi-va attività sportiva o lavori usuranti.
Lo stesso malato artrosico, una volta che si sia già manifestato il danno, ne limita, poi, l’evoluzione se impara gestire correttamente le proprie articolazioni.
Ciò si attua attraverso programmi di esercizio articolare che aiutano a mantenere e rin-forzare la mobilità e, nel contempo, a ridurre il dolore e la disabilità.
A tale fine sono ormai codificati tre tipi di esercizi finalizzati 1) alla mobilizzazione ed allo stretching della giunzione articolare, 2) al potenziamento della forza e della resi-stenza muscolare e 3) al miglioramento della condizione cardiovascolare globale ed al controllo del peso.
La modalità di esecuzione di tali esercizi deve, come avviene per ogni terapia, essere modulata in rapporto ad ogni singola situazione: un eccesso potrebbe, infatti, essere an-che dannoso, così come il praticarli in maniera disordinata non porterebbe alcun giova-mento.
Negli esercizi di mobilizzazione attiva e di stretching, ad esempio, dovrà essere evitato lo stress eccessivo; il carico di lavoro dovrà essere leggero e quotidiano, poiché l’obiettivo è solo quello di raggiungere una flessibilità delle articolazioni che riduca il rischio di lesioni da traumatismi.
Il rinforzo muscolare, sia in potenza che in resistenza, richiede, invece, un impegno maggiore, attuato magari a dì alterni, e può giovarsi dell’aiuto di attrezzature ginniche: è soprattutto in questa fase che si rischia di causare un danno più che un beneficio, quan-do si sottopongono le strutture muscoloscheltriche ad un sovraccarico di lavoro, senza alcuna progressione.
Infine, l’attività mirante al raggiungimento di una buona condizione cardiovascolare, polmonare e muscolare e, nel contempo, a controllare un eventuale sovrappeso è quella che viene più spesso suggerita, ma che non altrettanto frequentemente viene messa in pratica dal malato artrosico.
Essa consiste nell’eseguire esercizi aerobici che coinvolgono le grandi masse muscolari con movimenti ritmici e ripetitivi. Esempi ne sono la ginnastica in acqua, il nuoto e la ginnastica aerobica, ma anche lo stesso camminare o l’andare in bicicletta possono u-tilmente essere sfruttati all’uopo. Per questo tipo di esercizi sarà sufficiente un impegno di 30 minuti più volte la settimana e, qualora il lavoro dovesse risultare troppo gravoso, potrebbe essere anche frazionato in 2-3 fasi di 10-15 minuti ciascuna.
Premesso che un corretto esercizio è utile nella prevenzione e cura dell’artrosi, talvolta si cade nell’errore di sottovalutare l’azione terapeutica dell’attività fisica, nella convin-zione che più se ne pratica maggiore è il beneficio che se ne trarrà. Convincimento sba-gliato in quanto l’eccessivo carico articolare, che può derivare, ad esempio, da un lavoro di palestra troppo spinto, è paragonabile al ripetersi di quei microtraumatismi che rap-presentano un elemento innescante l’esordio e l’aggravamento dell’artrosi.
Ma anche quello che è un normale carico di lavoro per una persona sana può essere un elemento dannoso se applicato su un’articolazione già lesa.
Sarà pertanto opportuno informare correttamente il paziente che l’esercizio fisico deve essere interrotto quando determina la riacutizzazione del dolore o, peggio ancora, di un gonfiore dell’articolazione.
In buona sostanza, l’attività fisica è per tutti un buon alleato quando siamo noi a gestirla rispettando la resistenza delle nostre strutture muscoloscheletriche, ma può diventare un nemico quando ci lasciamo sovrastare dal desiderio di raggiungere risultati eccezionali attraverso un suo utilizzo eccessivo e disordinato.
La spia dei limiti d’uso in caso di artrosi è il dolore, mentre quando l’esercizio fisico viene sovradimensionato nel soggetto che ancora non ha manifestato l’artrosi la possibi-lità che esso determini un danno è difficilmente definibile a priori e varia da caso a caso in rapporto alla struttura fisico del singolo.
Un esempio di tutto ciò noi lo viviamo ogni giorno nella realtà veneziana, laddove il sa-lire e scendere i ponti è certamente un modo vantaggioso di eseguire un esercizio di prevenzione dell’artrosi delle ginocchia, ma diventa un elemento perfino invalidante quando la lesione delle strutture osteoarticolari abbia raggiunto ad uno stadio avanzato.
E il problema non è di poco conto in una Città come la nostra, dove, con una popolazio-ne composta per quasi ¼ da ultra-sessantacinquenni, sono più di 60.000 le persone che soffrono di artrosi.
Ma il problema del corretto utilizzo dell’esercizio fisico è sentito anche tra popolazione più giovane, laddove, alla luce di quelle che sono diventate per molti delle esigenze e-stetiche, ci si imbatte sempre più frequentemente in situazioni in cui l’attività di palestra travalica dalla funzione di una buona gestione del proprio fisico per diventare elemento lesivo per le strutture articolari.
Né meno pericolosa può essere l’attività sportiva quando sia condotta a livello amatoria-le su tempi e carichi di lavoro elaborati per un’attività professionistica, peggio ancora quando venga attuata da ragazzi che non hanno ancora raggiunto il pieno sviluppo fisi-co.
In conclusione si può asserire a ragione che nella terapia dell’artrosi l’attività fisica ri-veste un ruolo importante, a fianco di quello svolto dalla terapia medica, ma che quando il suo utilizzo sia eccessivo, proprio come avviene per ogni “medicina”, è in grado an-che di determinare un danno.
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