domenica, 30 giugno 2024
Medinews
20 Dicembre 2012

SUCCESSO DI SORAFENIB NEL CARCINOMA RENALE DOPO ESPOSIZIONE EFFICACE MA EPATOTOSSICA DI SUNITIB

Caso clinico di un paziente maschio che pur rispondendo a sunitinib ha sviluppato epatite, reversibile con l’interruzione del trattamento, ed è stato trattato con successo con sorafenib

Oncologi olandesi del VU University Medical Center di Amsterdam, Leiden University Medical Center e Ziekenhuisgroep Twente di Almelo hanno trattato con successo con sorafenib un paziente di 76 anni in ottime condizioni di salute al quale era stato diagnosticato un carcinoma renale metastatico, dopo aver dovuto interrompere la somministrazione di sunitinib, anche a dosi ridotte, per epatotossicità che regrediva prontamente con la sospensione di questo farmaco anti-tumorale. Il caso clinico presentato sulla rivista Journal of Clinical Oncology (vedi riferimento bibliografico) indica che il paziente era stato in un primo momento sottoposto a trattamento con sunitinib a dose piena (50 mg al giorno per 4 settimane, seguite da 2 settimane di sospensione), ma entro due settimane aveva sviluppato moderata epatite con alterazione degli enzimi epatici, fatigue, nausea e anoressia, ed era stato ricoverato per collasso al giorno 14. La sospensione di sunitinib per due settimane ha portato a normalizzazione della funzione epatica e scomparsa di tutti i sintomi. Sunitinib è stato quindi somministrato nuovamente a dose ridotta (25 mg al giorno), ma dopo 3 giorni il paziente presentava malessere e nausea, elevazione delle aminotransferasi di grado 2 e il farmaco è stato nuovamente sospeso. La valutazione della risposta, secondo i criteri RECIST, ha evidenziato stabilizzazione della malattia e riduzione del 18% della massa tumorale, dopo solo 17 giorni di trattamento con l’agente target. Sulla base di questi risultati e delle buone condizioni di salute del paziente, gli specialisti hanno deciso di interrompere il trattamento con sorveglianza attiva espletata attraverso esami radiologici ogni 3 mesi. Alla terza valutazione, dopo 9 mesi, è stata osservata progressione della malattia, quindi il paziente è stato sottoposto nuovamente al trattamento con sunitinib a dose ulteriormente ridotta (12.5 mg al giorno), sotto stretto controllo medico. La valutazione giornaliera degli enzimi epatici ha permesso di evidenziare un’epatite di grado 3 al terzo giorno (con valore minimo della concentrazione plasmatica combinata di sunitinib e SU12662, suo metabolita attivo, di 16.8 ng/mL). La nuova interruzione del farmaco ha riportato i valori epatici alla norma entro 3 settimane. A questo punto, i clinici hanno esaminato l’alternativa di trattare il paziente con sorafenib o con everolimus (terapia di seconda linea) ed hanno scelto l’inibitore delle tirosin-chinasi, in dose crescente fino a dosaggio pieno (da 200 mg al giorno per raggiungere entro 2 settimane 400 mg x2 al giorno, in assenza di tossicità). Dopo 2 mesi, ma anche dopo 5 e 8 mesi, non è stata osservata epatotossicità e la valutazione radiologica ha evidenziato una stabilizzazione della malattia con sorafenib. Gli autori, nella discussione del caso clinico, si sono chiesti da cosa potesse derivare l’epatotossicità di sunitinib, visto che il valore minimo della concentrazione plasmatica combinata del farmaco e del suo metabolita SU12662 era più basso dei livelli attesi di tossicità e che non si erano sviluppati i tipici eventi avversi, e hanno suggerito una farmacocinetica anomala di sunitinib. Hanno anche discusso le cause alternative di epatotossicità dell’agente target, tra cui un’alterazione del trasporto effettuato da ABCB1 e ABCG2 dello stesso farmaco. Sunitinib ha infatti elevata affinità per il secondo trasportatore e inibisce il primo: quindi, in questo paziente è stato suggerito un accumulo eccessivo di sunitinib negli epatociti come risultato di un’alterata funzione del trasportatore ABCB1. Anche le differenze di lipofilia tra sunitinib e sorafenib possono aver influito sull’epatotossicità manifestata con il primo agente, oltre ai diversi profili farmacodinamici. In conclusione, i clinici suggeriscono di considerare sempre il trattamento alternativo con un altro inibitore delle tirosin-chinasi quando si manifesta tossicità che limita la somministrazione di un primo agente target, dopo che questo è risultato efficace come anti-tumorale.


Renal Cancer Newsgroup – Numero 11 – Dicembre 2012
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